Papa Roach interview
PAPA ROACH INTERVIEWPAPA ROACH INTERVIEW
Volenti o nolenti, se si ripercorre la carriera dei Papa Roach, non ci si può esimere dal soffermarsi sul triplo disco di platino (nei soli Stati Uniti) di ‘Infest’, anno del signore 2000. Me lo ricordo bene, perché il “nu-metal” era al suo apice (i Papa Roach dominavano le classifiche insieme a Korn, Limp Bizkit, Linkin Park e tutta quella roba là) e sembrava che il mondo intero avesse intenzione di mettersi a suonare grassi chitarroni ribassati su cadenzate basi hip-hop. I Papa Roach si distinguevano per un tangibile richiamo all’heavy-metal classico soprattutto nel rifferama (non a caso il nome Iron Maiden ricorre più volte anche durante l’intervista a Jerry Horton che seguirà) su di un impianto che aveva il grande pregio di conquistare le grandi platee per le sue movenze accattivanti. Il disco che seguì, ‘Lovehatetragedy’, confermava la band californiana al top nelle vendite, e mostrava anche un netto ridimensionamento della componente rap (praticamente abbandonata) a favore di un’asciuttezza punk e uno svolgimento quasi dark. ‘Getting Away With Murder’ del 2004 concludeva tale percorso, conducendo ad una forma musicale che poteva definirsi sostanzialmente rock (sebbene conservasse sempre i grandi volumi del metal). ‘The Paramour Sessions’, prodotto da Howard Benson (Hoobastank, Creed, My Chemical Romance), esplicitava in maniera definitiva la coerenza della band: un suono pulito e tagliente, melodico e rabbioso, ruffiano e aggressivo al tempo stesso, che aveva permesso loro di ritagliarsi una considerevole fetta di fedeli estimatori. Con ‘Metamorphosis’ le cose cambiarono un po’ (come il titolo stesso lasciava intendere): l’avvicendamento alla batteria (fuori Dave Buckner, dentro Tony Palermo) anticipava un cambiamento di immagine e di attitudine che si faceva vedere e sentire. L’album scaricava sull’ascoltatore una colata alternative-metal che li avvicinava al graffiante rock’n’roll di band come Hardcore Superstar e Motley Crue (non a caso Mick Mars collaborò in un brano, ‘Into The Light’), con un orecchio agli anni ottanta ed un altro alle tendenze più moderne. Il risultato segnerà la fine della collaborazione con la Geffen Records, sancita in maniera risolutiva dal solito (e inutile) “best of”. ‘Time For Annihilation’, uscito nel 2010, vede i Papa Roach entrare nel rooster della Eleven Seven Music, con un album che presenta cinque inediti in studio più una serie di brani catturati live. La produzione di David Bendeth (Paramore, Killswitch Engage, Taking Back Sunday, As I Lay Dying) riesce a esaltare le performance dal vivo del quartetto di Vacaville, con particolare rilievo per le esibizioni carismatiche del frontman Jacoby Shaddix. Oggi, a due anni da quella svolta, ecco giungere il nuovissimo ‘The Connection’; ed è proprio sul nuovo album la prima domanda che mi viene da porre a Jerry Horton, chitarrista dei Papa Roach e storico nucleo fondatore del combo americano (insieme al vocalist Jacoby Shaddix e al bassista Tobin Esperance).
SD: ‘The Connection’ è il vostro settimo disco. Puoi spiegarci da dove nasce l’ispirazione, il titolo e la copertina?
PR: Il titolo era qualcosa che Jacoby (Shaddix, ndr) aveva in mente già durante il tour di ‘Time For Annihilation’. Ci piaceva molto, ma mentre registravamo il nuovo album sono venute fuori diverse altre possibilità e proposte. Io ho spinto sempre per ‘The Connection’, però, perché secondo me catturava la vera essenza delle canzoni. La copertina invece è nata un giorno in cui gironzolavamo su Internet alla ricerca di idee. Mi sono imbattuto nel sito thisiscolossal.com e ho adocchiato un’opera di Android Jones. Mi ha colpito all’istante, uno di quei momenti in cui ti sembra che le stelle si siano allineate per te. L’ho mostrata agli altri e anche loro hanno avuto la mia stessa reazione. Abbiamo cercato di utilizzare proprio quel lavoro, ma non si poteva, l’aveva commissionato qualcun altro. Allora abbiamo deciso di lavorare con Android per farne uno ancora più intrigante, e l’immagine che è nata pare impersonare veramente la musica contenuta nel disco.
SD: Quali sono i tuoi brani preferiti del nuovo lavoro?
PR: I miei preferiti sono ‘Leader of The Broken Hearts’, ‘As Far As I Remember’ e ‘Walking Dead’. Io, di solito, preferisco i brani più avventurosi. ‘As Far As I Remember’ era destinata ad essere l’ultima canzone del disco, qualcosa di crudo e meditativo. Si è rivelata essere anche molto epica e colma di speranza, e credo che questa sia la maniera migliore per chiudere l’album.
SD: Tra i vostri album, qual è quello che ti piace di meno? Per quale motivo?
PR: Non posso dire che me ne piaccia uno meno di altri. Guardo alla nostra carriera come ad un viaggio, e penso che bisogna apprezzare le esperienze che aggiunge ogni singola tappa.
SD: Qual è la cosa più stupida che hai letto o sentito dire sul vostro conto?
PR: Qualcuno in una band che ho seguito per molto tempo ha detto che eravamo della “merda vomitata” e che rubavamo dalle canzoni degli Iron Maiden. Tutto ciò mi fa riflettere: è meglio pensarci due volte prima di dire qualcosa di negativo.
SD: Cosa si prova ad avere una propria canzone in un blockbuster come Avengers? Siete fan degli eroi Marvel?
PR: È bellissimo. Era un bel po’ di tempo che non eravamo in una colonna sonora, ed essere invitati proprio a questa è stato fantastico.
SD: Jerry, se non avessi fatto il chitarrista, cosa avresti fatto?
PR: Sarei stato un pilota di auto. Amo le corse su strada, quindi avrei sicuramente voluto fare quello. Lo faccio comunque, anche se non ho molto tempo da dedicargli.
SD:Tatuaggi: qual è quello a cui sei più affezionato e cosa ti ricorda?
PR: Il mio tatuaggio preferito è lo stemma della mia famiglia. È davvero straordinario come riesca a descrivere il nostro modo di pensare, anche oggi. Mio padre, mio fratello ed io lo abbiamo fatto tutti contemporaneamente, ed è stata una bella esperienza.
SD: Amate suonare dal vivo? Qual è stato il momento più imbarazzante che vi è capitato on stage?
PR: Amo suonare dal vivo, soprattutto quando il pubblico è caldo e partecipe. In generale è una delle cose che tutta la band non vede l’ora di fare. Un momento imbarazzante… vediamo… nel 2000, eravamo in tour con i Korn, ed era la prima volta che suonavo su di un palco che era praticamente una grata. Sono caduto parecchie volte, mi sentivo come uno degli Spinal Tap.
SD: Prossimamente tornerete a suonare in Italia. Perché è bello suonare in Italia? Perché è brutto suonare in Italia?
PR: Un paio di anni fa ci siamo venuti con gli Iron Maiden, e ricordo che avevamo un’audience decisamente heavy-metal. In Italia ai fan del metal non piace altro che quello. Quando ci esibiamo, però, sento una grande energia. Ci piace la passione del popolo italiano.
SD: Vuoi dire qualcosa ai vostri fan italiani?
PR: Non vediamo l’ora di tornare di nuovo a suonare per i nostri fan!
(Txt by Flavio Ignelzi; Pics by Travis Shinn)
PAPA ROACH
‘The Connection’-CD
(Eleven Seven Music)
2,5/5
Il rischio che corre un gruppo che ha venduto più di 10 milioni di dischi è quello di tradire (col passare del tempo, intenzionalmente o meno) una buona fetta dei propri numerosi sostenitori. I californiani Papa Roach non si sono mai montati la testa e hanno deciso di non tradire i propri fan, rimanendo coerenti alle sonorità nu-metal degli inizi (sempre molto “pop”), magari lasciando spazio ad una scarnificazione modern-rock più evidente nelle ultime uscite rispetto ai primi lavori. L’ultimo (settimo) album, ‘The Connection’, non fa eccezione, proponendo una materia commerciale e seducente, vendibile ma potente, merito anche della ottima produzione del fedele James Michael (Motley Crue, Meat Loaf) e di John Feldmann (The Used, Good Charlotte, Panic! At The Disco), in grado di sparare una gran quantità di decibel senza perdere in nitidezza e accessibilità. Andiamo più a fondo esaminando le tredici tracce di un album che strizza un po’ troppo l’occhio al pubblico e non ha il coraggio di osare in nessuna occasione.
Engage: breve intro atmosferica con rullante militaresco a dettare il tempo.
Still Swingin: riff macina-tutto (ma anche macina-cliché) per quello che è il primo singolo dell’album (se vi capita, date uno sguardo anche al video horror, tra zombi e superpoteri), con una strofa dalla cadenza monotòna e rappeggiante un po’ antipatica che serve ad aprire il campo alla stucchevolezza del chorus.
Where Did The Angels Go: clangore metallico e sentori apocalittici esplodono letteralmente in un ritornello molto catchy, che si candida fin da adesso ad ruolo di possibile nuovo singolo.
Silence Is The Enemy: a dominare la scena sono le tastiere dark/wave e un arrangiamento che sembra prediligere i contrasti. Di certo gli aromi che si respirano conducono dalle parti del gothic-metal, ma non proprio nel senso offensivo del termine.
Before I Die: è quella che potrebbe definirsi una power-ballad, con sviluppi sentimentali e effettistica invadente; qualcuno potrebbe definirla “musica commerciale di qualità”; qualcun altro “robetta per mocciosi”. Ci sta più simpatico l’altro.
Wish You Never Met Me: pezzo sorretto dal vorticare del basso e dal groove contagioso, che in alcuni punti acquista le caratteristiche di un mid-tempo solenne. Mestiere sfruttato abbastanza bene.
Give Me Back My Life: la struttura è sempre la stessa: intro, strofa, ritornello ultra-melodico, bridge, strofa, ritornello. Non cambia una virgola, ma il cadenzato funziona lo stesso, nonostante la totale assenza di coraggio.
Breathe You In: impostazione rock’n’roll, le chitarre ruggiscono molto più di prima, le ritmiche sono urgenti e taglienti, l’impatto più violento. Una delle migliori prove dell’album.
Leader Of The Broken Hearts: ancora riflessi electro-wave, per quella che si annuncia come un’altra ballata, romantica, movimentata e strasentita, con un ampio utilizzo di stereotipi.
Not That Beautiful: la novità è l’accenno “scream” con cui Jacoby Shaddix conclude la strofa e introduce al ritornello rallentato, che insieme alle batture cantilenanti concedono al cantante lo scettro di regnante della song.
Walking Dead: parte con una battuta bassa sommessa e brumosa, poi la canzone ritrova il volume e la veemenza delle chitarre all’altezza del ritornello. Tra le cose più sobrie ed equilibrate del disco, e anche sostanzialmente pallose.
Won’t Let Up: la canzone con la componente hip-hop più evidente, forte di ampi tappeti sintetizzati ed effluvi metropolitani, ma che non la riescono a salvare, tanto da sembrare frutto di scopiazzatura dei peggiori Limp Bizkit.
As Far As I Remember: tempi lenti e grande uso di elettronica, per un pezzo evocativo e atmosferico, ma anche anonimo e deprimente, che fa immaginare grandi spazi aperti e scogliere dalle quali gettarsi nel vuoto.
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