Jon Hopkins @ Magazzini Generali, Milano – recap
Gran colpo dei Magazzini Generali. Ci regalano un (altro, freschi di Sven Vath) clamoroso venerdì notte, questa volta a cura di uno dei producers con più hype del momento:
Jon Hopkins da Kingston (non quella giamaicana, ma quella) sul Tamigi. Sono sempre curioso nell’approcciare (soprattutto dal vivo) artisti GROSSI come Jon Hopkins, gente che ha lavorato dalla nicchia al mainstream, e con mainstream intendo “vero” mainstream, quello più “becero” (vedi i Coldplay). Mi piace fare gli inevitabili (ed inevitabilmente impietosi) confronti con gli esempi simili “italiani”, tipo la coppia Fontana/Jovanotti. Cerco sempre la conferma del fatto che questa gente non abbia perso la testa, che non abbia ceduto a qualche compromesso. “A furia di stare con lo zoppo”… you know what I mean. La curiosità diventa scetticismo quando si parla di studi classici. Nello specifico, si parla di studi classici e di piano CLASSICO. E lo scetticismo diventa “PAURA” nel leggere, a proposito di Jon e del suo stile di vita, di meditazione trascendentale et similia. Il pericolo è chiaro: un Einaudi in salsa tecno sarebbe un pacco troppo difficile da sopportare. Parte il set con i Magazzini pieni, ma non pienissimi. Ed è subito una botta. Gli studi classici si traducono in un set “difficile”, non in cassa dritta, per intenderci. Thanks God non ci sono momenti “ambient/acustici”, tipo quei “fastidiosi” (in questo contesto) campioni di piano che mi avrebbero distrutto la poesia.
La terrazza che gira attorno ai Magazzini si riempie, ed il mio timore è che la proposta di Jon vada un po’ troppo “oltre”. Ancora ho in mente lo Sven Vath di un paio di settimane fa: roba fighissima, super divertente, ma ASSOLUTAMENTE quadrata. Perfetta per il pubblico di regaz in testosterone che ci circondava: pochi sorrisi, troppi denti digrignati per lo Zio Sven. Ma oggi c’è “mio cugino” Jon. E mi guardo attorno: TANTI sorrisi, POCHI denti digrignati, pochi regaz in testosterone. Un pubblico più vario, più trasversale (in modi ed età). Presa bene generale. Mi tocca ripensare, in bene, anche alla “meditazione trascendentale”.
Secondo me Jon Hopkin lavora su un mega loop, un mantra, che si ripete in maniera “regolare”. Una specie di respirazione quadratica: inspiro… apnea… espiro (il doppio)… apnea. Mi spiego: ci sono, abbastanza spesso, dei rallentamenti nelle bpm che finiscono con dei silenzi, delle interruzioni quasi “forzate”, degli standby che SEMBRANO degli errori (ma io dico che non lo sono). E poi si esplode (il doppio)! Teniamo conto che Hopkins ha lavorato più di una volta “completamente fuori, ma sotto controllo”, per esplorare la sua creatività sotto l’effetto di funghetti et similia. Insomma. NIENTE esce a caso da quelle casse. La provenienza “Kingstoniana” (in questo caso mi riferisco, per associazione, a certi suoni) si sente tutta: BASSI che fanno spavento, BASSI ON FIRE. Last, but not least, secondo me il buon Jon è intervenuto in prima persona anche sull’impianto dei Magazzini (mi piacerebbe chiedere conferma): la resa sonora del suo set batte di un ordine di grandezza quella di Sven.
Molto strano, anzi, un vero e proprio peccato, visto che stiamo parlando di due “fanatici” del suono. Conclusione. Jon Hopkins? “L’elettronica è tornata a casa”.
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