Interviews
Pagoda interview
March 5, 2022 | Salad DaysAnni trascorsi tra vari progetti hanno portato Giacomo Asti, musicista originario di Parma, ad intraprendere un nuovo, personale percorso.
Sotto il nome di Pagoda, il cantautore pubblica il suo album di debutto, ‘Amerigo Hotel’, disco di carattere e colori variegati. Con Tom Petty and the Heartbreakers e i REM nel cuore, ma con gli occhi pieni di voglia di scrivere la propria pagina nella musica di questo Paese, ecco Pagoda. L’abbiamo intervistato in esclusiva per Salad Days Magazine.
SD: Come mai hai dato vita a questo nuovo progetto? E cosa ti ha spinto a scegliere il nome d’arte Pagoda?
P: Questo progetto è figlio dei brani che ho scritto in questi ultimi due anni. Non avevo intenzione di iniziare a fare dischi a dire il vero, non era una cosa in programma. Mi sono messo a scrivere canzoni prima che la pandemia arrivasse, più che altro a scopo terapeutico. Avevo bisogno di incanalare le mie energie, i miei pensieri e le mie piccole ossessioni in qualcosa che mi rendesse soddisfatto di me stesso. Ho scelto la musica senza neanche pensarci. Suonavo da tempo nei locali della mia città e in passato avevo già provato a fare pezzi miei, ma senza l’impegno e la disciplina necessari. Quando le canzoni hanno cominciato ad arrivare, una dopo l’altra, ho capito che avrei dovuto fare i passi successivi: registrare, pubblicare e… scegliere un nome! Anche scegliere il nome è stato abbastanza naturale. Mi era capitato di inciampare sulla parola pagoda diverse volte nel corso degli anni e l’avevo sempre trovata misteriosa, simpatica, rispettabile e suggestiva. Insomma, mi aveva sempre colpito in qualche modo. La prima volta che l’ho sentita è stata quando un amico mi ha svelato che uno dei due stabilimenti dismessi delle Acciaierie Falck di Sesto San Giovanni veniva chiamato il Pagoda. La seconda volta ascoltando una canzone di Paolo Conte, ‘Pesce Veloce Del Baltico’. La terza volta quando ho fatto un viaggio in Giappone e ho chiesto alla mia amica/guida come si chiamassero tutte quelle torri di diversi piani che vedevo ovunque. Il mio cervello deve aver riservato un posto speciale a questa parola e quando si è trattato di decidere un nome mi è venuta subito in mente.
SD: Il tuo album di debutto è ‘Amerigo Hotel’. Cosa puoi dirci su questo titolo e su questo album? Ci sono canzoni che sono nate in un modo e finite sul disco in tutt’altro modo?
P: ‘Amerigo Hotel’ è stata la prima canzone a cui ho iniziato a lavorare per questo disco e ho sempre pensato che sarebbe stato il titolo perfetto da dare all’album. Mi suonava (e mi suona tuttora) bene. Le otto canzoni di ‘Amerigo Hotel’ rappresentano solo una piccola parte del repertorio che ho accumulato nel corso degli ultimi due anni. Non voglio tirarmela troppo, ma ho già materiale sufficiente per altri due album. Quando ho deciso di andare a registrare dovevo fare delle scelte e ho pensato che fosse giusto iniziare dai pezzi più immediati e semplici, quelli che non avrebbero avuto bisogno di una produzione massiccia e che non mi avrebbero complicato la vita. Detta così può sembrare una scelta poco ambiziosa, ma in realtà è stata una più dettata dall’urgenza: desideravo mettere su una band, arrangiare le canzoni, registrarle e pubblicarle nel minor tempo possibile. Non volevo esitare o rimuginare troppo sul da farsi. È stato un approccio poco prudente e un po’ incosciente, ma sono contento di aver fatto le cose a modo mio. Abbiamo registrato queste canzoni live, con una band di musicisti fantastici tutti insieme nella stessa stanza. Era tutto ciò che volevo. Certo, ci sono dei difetti qua e là, alcune cose potevano venire meglio, ma non ho grossi rimpianti. Sono molto soddisfatto di tutte queste canzoni. Per rispondere all’ultima parte della tua domanda, no, le canzoni sono finite su disco più o meno come le avevo immaginate. Chiaramente nessuna è aderente al 100% all’idea che avevo in testa, ma nessuna è uscita stravolta dalle fasi di arrangiamento, registrazione e mix. Le riconosco ancora tutte. Sono cambiate, ma non troppo.
SD: Come nascono i testi delle tue canzoni? Arrivano spontaneamente e con facilità o sono frutto di un processo elaborato e incostante? Ci sono testi che ti hanno creato particolari difficoltà?
P: I testi nascono spontaneamente, non direi con facilità, ma non è nemmeno un processo lento e laborioso. Sicuramente finisco prima le musiche, ma di solito riesco a completare una canzone in pochi giorni. Mi aiuta molto scrivere di ciò che conosco, che mi riguarda e mi circonda. E sì, due testi mi hanno messo un po’ in difficoltà: ‘Amerigo Hotel’ e ‘Un’Ora Di Libertà’. La prima perché riascoltandola dopo averla registrata, mi sono accorto che certe parole suonavano proprio male e penalizzavano il canto, così ho dovuto riscrivere certe strofe, cercando di mantenere gli stessi concetti, ma facendo attenzione al suono di ogni singola parola. La seconda perché… il testo non arrivava! Avevo scritto qualche verso, ma non riuscivo a capire dove volesse/dovesse andare a parare la canzone. Le mancava un cuore, un nucleo. Poi, come spesso succede, mi sono sbloccato e in un paio di giorni l’ho conclusa. Ma non è successo all’improvviso. Ho passato pomeriggi interi a sbattere la testa davanti a un foglio bianco di Word.
SD: Cosa vuol dire per un musicista underground far uscire un album in un periodo storico come quello che abbiamo vissuto e stiamo vivendo, con risvolti cruciali per il mondo della musica dal vivo?
P: Non posso parlare per l’intera scena underground, ognuno avrà stimoli e motivazioni diverse. Ma posso parlare per me e, come dicevo prima, non ho fatto troppi pensieri prima di iniziare questa avventura, ero solo determinato a fare un disco di cui essere fiero. Se mi fossi messo a pensare troppo al mercato musicale odierno e alla situazione dei live (anche) in relazione al Covid penso che mi sarei scoraggiato e non avrei combinato un bel niente. Sicuramente per i prossimi lavori agirò diversamente e mi farò consigliare da chi ne sa più di me, ma dovevo sbloccarmi e ‘Amerigo Hotel’ l’ha fatto.
SD: Tra i tuoi riferimenti ci sono REM e Tom Petty and the Heartbreakers. Se potessi aver scritto un brano per ciascuno di questi gruppi, quali sceglieresti?
P: È dura sceglierne solo una per ognuno di questi artisti, ma ci provo. So già che farò il saputello, scusate, ma parliamo di artisti che amo. Vediamo… per Tom Petty direi ‘The Waiting’. Una canzone semplicemente perfetta. La melodia è entusiasmante, scorrevole, immediata e semplice (non facile). È curata nei minimi dettagli, ma all’ascolto suona tutto così spontaneo e naturale. Fa impressione. Poi adoro l’arrangiamento degli Heartbreakers, un capolavoro di buon gusto. Ma anche il testo e l’interpretazione di Petty non sono da meno. È una canzone che trasuda desiderio ed energia, con quell’amarezza di fondo a rendere tutto ancora più eccitante. Per i R.E.M. dico ‘Man On The Moon’. Una volta Beppe Viola disse: “Sarei disposto ad avere 37 e 2 tutta la vita in cambio della seconda palla di servizio di McEnroe”. Ecco, io sarei disposto ad avere 37.2 di febbre tutta la vita in cambio di ‘Man On The Moon’. È una canzone enigmatica, misteriosa, e beffarda, ma allo stesso tempo commovente e accessibile a tutti. Vorrei averla scritta, arrangiata, prodotta e cantata, anzi, mi basterebbe anche solo una di queste cose. È una canzone enorme. Ogni volta che l’ascolto rimango senza parole.
SD: Parlaci di Parma, dalla prospettiva di un musicista navigato che intraprende un nuovo percorso musicale. Pregi e difetti, senza restrizioni.
P: Senza restrizioni? Ok, sono andato a registrare a Montichiari, nel bresciano. Questo la dice lunga, no? Non che a Parma manchino studi e professionisti di alto livello, ci mancherebbe. Ci sono. Il problema è più mio. Parma è una città chiusa e io sono caratterialmente un po’ chiuso, dovrei sentirmi a mio agio in questo contesto, invece no. È uno di quei casi in cui meno per meno non fa più, fa sempre meno. Non mi sono mai sentito parte della scena musicale parmense (ammesso che ne esista una). Quindi non conosco bene le realtà di questa città, le sue dinamiche. Collaboro con pochi musicisti qui, quasi tutti amici fidati e che stimo artisticamente. Dal punto di vista live, invece, Parma va un po’ a cicli. Ci sono periodi in cui tanti locali fanno suonare e funzionano bene, altri in cui i locali scarseggiano e sono gestiti male. Giudicare l’andamento di questi ultimi due anni sarebbe ingiusto vista la presenza del Covid. Mi auguro che si esca definitivamente dalla pandemia e che tornino a fiorire tante attività che fanno musica dal vivo.
SD: Cosa possiamo aspettarci da Pagoda ora che l’album è uscito? Quali sono i progetti futuri?
P: Il mio primo obiettivo è recuperare il release party già programmato per la data di uscita del disco, ma che è stato rimandato causa Covid. Dovremmo riuscire ad aprile. Incrocio le dita. Poi continuare a suonare live per portare queste canzoni fuori dai confini della mia città e regione. Infine, sto già pensando a qualche singolo da pubblicare prima di immergermi totalmente nella realizzazione del prossimo album. Insomma, se dovessi riassumere i progetti futuri in una parola direi: insistere!
Pic Credits: Maria Buttafoco
Io E I Gomma Gommas interview
February 17, 2022 | Salad DaysAbbiamo intervistato Io E I Gomma Gommas, che escono con un nuovo album e celebrano due decenni tra punk rock e classici della discografia italiana.
SD: Venti anni sulle scene, ne avrete viste di cose… Quale è la top 5 dei migliori momenti della vostra band in tutti questi anni?
IEIGG: Ce ne sono tantissime di cose da mettere nella Top 5, così di getto proviamo con queste, in ordine sparso:
N.1 – Suonare come band ospite a Lamezia Terme al DemoFest 2009 prima di Arisa e Roy Paci e Aretruska, davanti a un bagno di folla (i giornali dell’epoca parlavano di oltre centomila spettatori).
N.2 – Suonare a Comiso in Sicilia prima e dopo lo spettacolo del Mago Forrest, da piegarsi in due dalle risate.
N.3 – Andare una settimana in America in studio con Ryan Green per prendere parte al mixaggio e al mastering del nostro primo album. Esperienza pazzesca. Quante cose sono successe in quelle giornate!
N.4 – Primo concerto all’estero allo Street Food Festival di Neresheim in Germania. Vedere il pubblico cantare le nostre canzoni anche all’estero ci ha fatto sentire famosi! Ahahahah…
N.5 – Concerto alla Corte dei Miracoli a Siena qualche settimana prima dell’inizio della pandemia, locale pieno zeppo, pubblico scatenato e pogo dal primo all’ultimo brano del live. Ci è rimasto nel cuore e a pensarci oggi sembrano passati dei secoli.
N.6 – I featuring dell’ultimo album, da Pela (cantante della nuova band di Marky Ramone) a Davide Toffolo. Ancora ci sembra incredibile! Avevi detto 5… Abbiamo sforato ahahahah…
SD: Ovviamente avrete visto e vissuto anche cose assurde. Vi andrebbe di condividere con noi un aneddoto folle, di quelli difficili da credere per chi non l’ha vissuto?
IEIGG: Una storia con scene da film, ci è successa qualche anno fa. Suonavamo in un locale situato in una zona industriale vicino Foligno. Prima del live stavamo fuori a fumare qualche sigaro e a bere birra, ad un certo punto assistiamo ad uno speronamento tra auto lungo il rettilineo adiacente al locale… una Smart speronava un’altra auto molto più grande, cercando di mandarla fuori strada. Le auto procedevano a folle corsa, la macchina speronata dopo aver fatto un’inversione entra nel parcheggio del locale e prova a parcheggiare, mentre la Smart gli va addosso bloccandogli la fiancata opposta alla guida… dall’auto scende un ragazzo sulla trentina che cerca di entrare nel locale, nello stesso tempo scendono dalla Smart due ultrasessantenni enormi (ci chiediamo ancora oggi come potessero entrare in una Smart) che bloccano il ragazzo e lo iniziano a pestare a sangue, con una violenza inaudita. Gli prendono la testa e iniziano a sbatterla nell asfalto… ci rendiamo subito conto che la situazione sta precipitando, così interveniamo blocchiamo i due signori e chiediamo l’aiuto dei ragazzi del locale, subito dopo arriva la Polizia. Il ragazzo era alticcio e sconvolto, continuava a dire: “me só cagato addosso! M’avete fatto cagare addosso!”. E ci accorgiamo che veramente se l’era fatta sotto (la puzza dopo poco è diventata nauseante). Dopo tutti gli accertamenti del caso con la Polizia capiamo che il ragazzo aveva rotto lo specchietto della Smart e non si era fermato, così è partito l’inseguimento… dopo ore di ritardo siamo riusciti a fare il concerto.
SD: Parliamo invece del presente. Nuovo album, nuove collaborazioni. ‘…E Vennero Fuori I Lupi’ è uscito da poco, ma è stato scritto e registrato da tempo. Come è cambiato il rapporto tra voi e queste canzoni, dopo averle fatte (forzatamente) sedimentare durante il periodo della pandemia? A mente fredda, c’è qualcosa che avreste fatto di diverso?
IEIGG: Bhe diciamo che per la prima volta anche Filo (chitarra/voce) lo ha ascoltato più volte! Ahahahah. Dovete sapere che odia risentire la sua voce e solitamente non ascolta mai gli album dei Gommas. Questo fatto ci ha fatto ben sperare ed è stato già un buon segnale. Le canzoni scelte rispecchiano pienamente quello che avevamo in mente e danno secondo noi un quadro abbastanza dettagliato del fermento artistico che girava in Italia in quegli anni. Quindi non cambieremmo praticamente nulla… poi ovvio se lo registravamo oggi magari sarebbe venuto completamente diverso!
SD: Avete creato un video in stop motion spettacolare per il singolo ‘Tanto Pe’ Canta’, con ospite illustre Davide Toffolo dei Tre Allegri Ragazzi Morti. Come è nata questa idea? Quali sono le difficoltà nel creare un visual in stop motion di alto livello? C’è qualche video che vi ha ispirato nella realizzazione del vostro progetto?
IEIGG: Il videoclip è nato dalla pazza mente del nostro chitarrista/cantante Filo. L’idea era far incontrare El Tofo (Davide Toffolo) e Fortunello (Ettore Petrolini) e l’unico modo era in un mondo fantastico ovviamente. Le difficoltà nell’affrontare un lavoro del genere sono innumerevoli, da quelle più basilari, tipo costruire i pupazzi in modo che riescano a muoversi abbastanza bene, alla costruzione della scenografia, fino ad arrivare alle cose che sembrano più semplici, ma che non lo sono affatto, come posizionarsi per inquadrare al meglio i personaggi… per non parlare poi del montaggio e la sincronizzazione a tempo. Per la fotografia Filo si è completamente affidato alla maestria della bravissima fotografa Nicoletta Pasquini (Foto F Lab). Pensate che per questo lavorone Filo e Lele (batterista dei Gommas) si sono arrangiati con quello che avevano, rendendo questo videoclip ancora più pazzesco. Per dirne una, il bellissimo pellicciotto de El Tofo è stato ricavato rubando un Gilet di pelo della compagna di Filo. Le ispirazioni sono state diverse: sicuramente El Tofo e Fortunello sono personaggi che, nella testa di Filo da sempre affascinato da questa tecnica, e dal grande Tim Burton, si prestano a diventare pupazzi… Già in passato Filo si era cimentato con lo stop-motion realizzando il videoclip di ‘Nel Blu Dipinto Di Blu’ (che vi consigliamo di andare a vedere).
SD: Avete rivisitato diversi classici e anche diverse perle nascoste della discografia italiana in questo album. C’è qualche brano che avreste voluto includere ma che non sarebbe rientrato nella linea dell’album?
IEIGG: Sono diverse le canzoni che non abbiamo messo o concluso. Ci sarebbe piaciuto inserire un brano dei primissimi Skiantos, tipo ‘Eptadone’ o ‘Gelati’, ma purtroppo poi sarebbero stati 17 i brani nel disco… e visto il periodo, abbiamo deciso che forse era meglio non sfidare ancora la sorte. Ahahahah.
SD: Se poteste invitare qualsiasi artista italiano come ospite sul prossimo album, chi invitereste?
IEIGG: Sarebbe bellissimo avere Gian Maria Accusani (Sick Tamburo, Prozac +): per quello che rappresenta per la musica punk italiana e per molti altri motivi….e non per ultimo per la bella persona che è.
SD: Venite dalla provincia di Ancona. Le Marche sono terra florida per la musica underground? Quali sono i luoghi di riferimento nella vostra zona per chi vuole ascoltare musica indipendente? Ci sono band e artisti che dovremmo ascoltare?
IEIGG: La scena marchigiana è viva e florida, anche se purtroppo dobbiamo constatare che tra le band c’è poca collaborazione. Per quanto riguarda la nostra band, nella nostra zona, c’è sempre stato molto scetticismo, probabilmente perché facciamo cover… o forse perché siamo molto belli! Ahahahah. Se vuoi ascoltare musica indipendente nella nostra zona devi andare al Loop ad Osimo o al nuovo Circolo Dong zona Macerata e d’estate all’Igno Park (bellissimo skatepark) di Osimo e al Lazzabaretto di Ancona. Ci sono ottime band e artisti della nostra zona che meritano sicuramente un ascolto. Ad Osimo siamo cresciuti con Aurelio Laloni in arte Joe D’elirio. Tra le band storiche (generi più disparati provincia di Ancona) ascoltatevi per esempio: Gli Amici Dello Zio Pecos, Kurnalcool, La Tosse Grassa, Dadamatto, The Gentlemens… tra quelle più recenti ci sono i Pomodoro Troppikaos, la scena Castello Hardcore Crew con i T-Rex Squad, The Livermores, The Dinasyt o anche la nuovissima realtà Bruma Records con i Dr. Furia.
SD: Se poteste cambiare qualcosa nel panorama musicale italiano, cosa cambiereste? E cosa invece pensate sia una qualità da preservare?
IEIGG: Nel panorama musicale italiano troviamo ancora poca collaborazione e poca condivisione. Questa cosa accade soprattutto nel mondo indipendente. E poi ci fa davvero strano notare che la maggior parte delle critiche non costruttive provengono quasi sempre da chi la musica la suona solo nella propria sala prove, questo atteggiamento va sicuramente cambiato. Quindi la qualità da preservare quando la si trova nella musica è appunto la condivisione.
SD: Cosa c’;è in arrivo, a ridosso dell’uscita del vostro album? Tornerete dal vivo? Avete già concerti confermati?
IEIGG: In arrivo ci saranno altri videoclip… e poi vorremmo ritornare a fare tanti live, come facevamo prima della pandemia. A questo ci sta pensando la Make A Dream. Per ora possiamo dirvi che ad Aprile recupereremo il concerto che dovevamo tenere al Traffic di Roma a Gennaio.
Nightwatchers interview
January 15, 2022 | Salad DaysI Nightwatchers sono una band punk e vengono dalla Francia. Hanno appena pubblicato un interessante album chiamato ‘Common Crusades’, un disco che mette in luce le gravi ombre della società post-coloniale francese.
Un album carico di significati e allo stesso artisticamente notevole. Abbiamo fatto una chiacchiarata con Julien Virgos, cantante della band.
SD: Il vostro nuovo album ‘Common Crusades’ è uscito da poco. Qual è il feedback?
NW: Finora il feedback è buono! Siamo molto felici del risultato, non vediamo l’ora di suonare il nostro nuovo set in tutta la Francia e l’Europa.
SD: È un album molto esplicito su antiche questioni sociali come il colonialismo e le loro conseguenze nella società moderna. Cosa vi ha spinto a scrivere un album del genere? Pensate che il punk possa avere un impatto nella società francese quando si tratta di questo tipo di disuguaglianze sociali?
NW: Abbiamo scelto questo tema dopo due dischi sulla violenza della polizia, perché la gestione contemporanea della polizia in aree prioritarie della politica cittadina è ancora molto influenzata dal periodo coloniale, senza che questa eredità sia sempre consapevole. Gli scritti di Malika Mansouri o di Manuel Boucher sono molto interessanti su questo tema. Trovo importante sottolineare i legami che esistono con questo periodo e soprattutto con questo territorio, quello dell’impero coloniale francese, che spesso tendiamo ad evitare quando pensiamo alla storia della Francia. L’Algeria era un dipartimento francese non molto tempo fa. La società sta cambiando e le cose si stanno muovendo su questi temi, direi di sì, ma non saprei dire in che modo. La musica punk può avere un impatto nella società francese, su scala molto piccola… il nostro album non cambierà molto riguardo ai problemi che affrontiamo, ovviamente. Ma l’obiettivo è quello di informare e illuminare un argomento di cui la gente non parla / scrive molto nella scena punk / alternativa francese.
SD: Perché la Francia è afflitta dai problemi che riportate nei vostri testi? C’è qualche tipo di critica verso il colonialismo al di fuori delle controculture radicali?
NW: La colonizzazione francese rimane un argomento molto divisivo, basta vedere gli ultimi dibattiti sulla commemorazione di Napoleone Bonaparte. Negli ultimi anni il cursore politico si è chiaramente spostato verso la destra conservatrice, in Francia come nel resto d’Europa. L’attuale governo ha deciso di fare della lotta contro l’”Islam radicale” o “Islam politico” una priorità, in nome della coesione nazionale e dei “valori della Repubblica francese”. Dal nostro punto di vista, questa lotta si inserisce nella continuità della storia coloniale della Francia, in particolare nel contesto algerino. I nostri governi hanno sistematicamente cercato di imporre lì dei valori cosiddetti “universali”, sostenendo che la pratica dell’Islam è incompatibile con essi. Non si parla molto di colonialismo in Francia al momento, ma sempre più persone cominciano a sottolineare un’eredità postcoloniale che il nostro governo rifiuta di riconoscere. Rifiutano ancora di prendersi la colpa e di affrontare la loro responsabilità storica sui crimini che abbiamo commesso in nome dell’Universalismo ad Haiti, in Indocina, in Algeria, in Camerun e così via. Abbiamo un problema con tutte le parti oscure della storia coloniale, come se parlarne e far luce su di essa equivalesse a sputare sulla Francia. Si viene rapidamente etichettati come islamisti, separatisti o quant’altro. Ci si lava con l’importanza del dovere di ricordare, ok molto bene, ma ci si rende conto che la memoria in questione è molto selettiva, e che ci sono certi passaggi che si preferisce mettere da parte quando turbano un po’ troppo il nostro romanzo nazionale. Non ci sarà nessuna riconciliazione, nessuna unità nazionale in Francia finché tutte le memorie potranno essere espresse e non saranno riconosciute allo stesso modo. Il fumo è una parte triste della storia francese. Anche l’uso del napalm in Indocina. La sistematizzazione della terra bruciata, la tortura e lo stupro in tutte le guerre decoloniali pure.
SD: Che tipo di band menzionereste se doveste descrivere i Nightwatchers a qualcuno che non ha mai sentito parlare di voi?
NW: Se non ci hai mai ascoltato, potrebbe essere descritto come un mix tra band come Red Dons, Radioactivity, Mass Hystery, Eagulls, Sad Lovers & Giants… punk cupo e malinconico. Credo che questo nuovo album sia in continuità con ‘La Paix Ou Le Sable’, esplorando un po’ di più alcuni orientamenti post punk.
SD: È difficile per una band francese cantare in inglese e avere un seguito nel proprio paese? Avete un feedback da altri paesi europei?
NW: In Francia siamo abituati ad avere band punk che cantano in francese o in inglese, non è un problema. Naturalmente ad alcune persone non piacerà se canti in inglese, ma non è insolito. Credo che in realtà ci aiuti ad avere un pubblico più vasto al di fuori della Francia. Siamo stati in tour in Germania, Svizzera, Spagna, Repubblica Ceca, Svezia… almeno possono dare un’occhiata ai nostri testi e capire di cosa stiamo parlando. È bello vedere che i temi che trattiamo interessano molte persone fuori dalla Francia.
SD: Come avete iniziato a lavorare con la vostra etichetta svedese, la Lovely Records?
NW: Dopo i nostri primi 2 EP, abbiamo chiesto alla Lövely se sarebbero stati interessati a lavorare con noi sul nostro primo LP. Li conoscevamo per via di Rotten Mind e Dahmers, soprattutto. Erano interessati, così abbiamo organizzato alcuni incontri su Skype per parlarne e la nostra collaborazione è iniziata abbastanza facilmente! Sono stati super gentili e pazienti con noi.
SD: Dove vorreste andare in tour con questo nuovo album?
NW: Inizieremo con la Francia e l’Europa, ma andremo in tour ovunque sia possibile! Il Sud America sarebbe fantastico, ma credo che dovremo aspettare un po’ a causa della crisi dei Covid… condivideremo un paio di concerti con i Rotten Mind a marzo/aprile, eventualmente altri con Marmol in Bask Country a maggio… annunceremo tutti i nostri piani molto presto!
Full Of Hell – interview
October 5, 2021 | Salad DaysI Full Of Hell hanno rilasciato un nuovissimo album, intitolato ‘Garden Of Burden Apparitions’.
Il quartetto statunitense nel corso degli anni ha saputo mutare pelle, incorporando elementi anche molto distanti dal loro primigenio grindcore. Ho rivolto qualche domanda a Dylan Walker, voce e campionamenti della band divisa tra Ocean City nel Maryland e la Pennsylvania.
SD: Il vostro nuovo album, ‘Garden Of Burning Apparitions’, esce ancora una volta sotto l’egida di Relapse Records. Credo proprio siate molto soddisfatti di loro…
FOH: Sì, Relapse e’ un’ottima etichetta mandata avanti da gente che ama davvero la musica. Puoi dire, lavorando con ognuno di loro, che amano veramente quello che fanno e vogliono solo costruire qualcosa di speciale tramite la label.
SD: Possiamo considerare il nuovo album come un concept sulla religione? Dico questo perche’ mi pare abbiate spinto molto su questo argomento…
FOH: Non credo che abbiamo spinto il tema religioso in maniera così forte rispetto ai precedenti lavori. Il focus questa volta e’ stato maggiormente orientato sul concetto di spiritualita’ ad un livello individuale e sulle tormentose domande che riguardano l’impermanenza e la mortalita’. Abbiamo sempre scritto di questi argomenti in una forma o nell’altra, ma questa volta il rasoio e’ un po’ piu’ affilato.
SD: Avete registrato durante lo scoppio della pandemia nel vostro paese. Che tipo di sensazioni avete avuto? Questa tragedia in che modo ha influenzato la vostra vita privata e quella dei Full Of Hell?
FOH: E’ stata un’esperienza strana per tutti. E’ stato tutto estremamente stridente per cio’ che riguarda il gruppo. Da un lato abbiamo visto il nostro mondo cambiare dall’oggi al domani. Dall’altro pero’, e’ stato positiva per due ragioni. Ci ha permesso di prenderci una pausa dall’essere costantemente in tour, il che e’ stato molto importante a livello personale per valutare che cosa stavamo facendo. La seconda ragione e’ che ci ha forzati a fare perno e a essere creativi con cio’ che avremmo potuto ancora fare. Per cio’ che mi riguarda, questo periodo ha rinvigorito il mio amore nel creare arte e mi ha fatto concentrare in una maniera che non sarebbe stata possibile se non ci fosse stata la paura per la fine del mio mondo. E’ stato un periodo duro, abbiamo perso persone amate come e’ successo a molti. Non c’è altro modo in cui guardare cio’ che e’ successo, davvero. Sfortuna e tragedia, ma l’unica opzione che abbiamo e’ tirare avanti.
SD: Joe Biden e’ il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America. Felici di cio’? L’eredita’ di Trump e’ ancora viva?
FOH: Joe Biden fa schifo. Non e’ un terrificante autocrate come Trump, ma e’ un lupo travestito da agnello come tutti gli altri. Nessuno di loro ha a cuore il miglior interesse per l’umanita’.
SD: Qualcuno descrive i Full Of Hell come grindcore per hipster. Non mi trovano minimamente d’accordo, anche perche’ non suonate solo grindcore. Cosa ne pensate?
FOH: Non ci importa, anche se ad essere onesti e’ una bella descrizione. Se fossi un purista del genere, probabilmente la penserei allo stesso modo, ma non lo sono. Mi piacciono un sacco di tipi di musica differente e non voglio sentirmi limitato nel nostro approccio. Credo sia molto importante che vi siano band che mantengano sempre lo stesso focus in un unico genere. Noi non siamo minimante interessati, questo e’ quanto.
SD: Puoi parlarci della cover? E’ davvero intrigante… puoi spiegarci il significato del libro? Di chi e’ la faccia del ragazzo?
FOH: E’ una interpretazione di Mark McCoy di un sogno che ho fatto, in cui un serafino discende in un giardino in rovina.
SD: Fin dall’inizio, i Full Of Hell hanno sperimentato con differenti suoni. Questo sara’ l’approccio che userete anche per i futuri album, o tornerete ad una forma piu’ semplice?
FOH: Spero diverremo sempre piu’ strani.
SD: Progetti per una nuova venuta in Europa? Mi ricordo una gran concerto a Bologna con i Disciples Of Christ…
FOH: Quel tour con i DOC e’ stato decisamente malato. Torneremo al 100% quando sara’ sicuro e facile farlo. Sono ottimista per il 2022…
SD: Grazie mille per il tuo tempo. Se vuoi aggiungere qualcosa…
FOH: Grazie mille per l’intervista! Stay safe…
(Txt by Marco Pasini x Salad Days Mag – All Rights Reserved)
Artist photo (above) by: Jess Dankmeyer
Photo by: Kevin Spaghetti
FULL OF HELL, ON TOUR WITH WOLVES IN THE THRONE ROOM & UADA:
1.11 • Seattle, WA • Crocodile
1.12 • Vancouver, BC • Rickshaw
1.14 • Edmonton, AB • Starlite Room
1.15 • Calgary, AB • Dickens
1.17 • Salt Lake City, UT • Metro Music Hall
1.18 • Denver, CO • The Oriental Theater
1.19 • Lawrence, KS • Granada Theater
1.20 • Minneapolis, MN • Fine Line Music Café
1.21 • Chicago, IL • The Metro
1.22 • Detroit, MI • El Club
1.23 • Toronto, ON • Danforth
1.25 • Montreal, QC • Fairmount
1.26 • Boston, MA • Sinclair
1.27 • Brooklyn, NY • Warsaw
1.28 • Pittsburgh, PA • Mr. Smalls
1.29 • Washington, DC • The Black Cat
1.31 • Charlotte, NC • Amos’ Southend
2.01 • Atlanta, GA • The Masquerade
2.02 • Tampa, FL • The Orpheum
2.04 • Dallas, TX • Amplified Live
2.05 • San Antonio, TX • The Rock Box
2.07 • Phoenix, AZ • Nile Theater
2.08 • Los Angeles, CA • The Regent
2.09 • Berkeley, CA • UC Theater
2.11 • Portland, OR • Hawthorne Theater
Lorenzo Senni – full interview
August 28, 2021 | Salad DaysÈ poco più di un anno che Warp ha fatto uscire ‘Scacco Matto’, del nostro Lorenzo Senni.
Nell’ambito delle celebrazioni (e delle riaperture) del caso, avremo modo di vederli suonare (Senni e ‘Scacco Matto’) live! Per partecipare, a mio modo, alla partita, mi è sembrato carino imbarcarmi in questa strana impresa di proporre a Lorenzo una track by track: da una parte i miei deliri e le mie suggestioni, dall’altra le sue risposte, le sue contromosse. In realtà c’è anche la bonus track, o la traccia nascosta: ho voluto chiedergli anche del titolo. Il risultato è una super chiacchierata, piena di riferimenti e idee, alla faccia di chi pensa che l’elettronica sia cosa per gente gelida, e che la Warp sia un covo di snob o di nerd.
SD: ‘Scacco Matto’ – Partirei dal celeberrimo campione: ‘The Game Of Chess Is Like A Sword Fight’. Wu Tang Clan: ‘Da Mystery of Chessboxin’. Il Wu Tang per gente della vecchia come me aveva il rispetto totale, no matter che musica si ascoltava/si faceva. Loro erano un collettivo, con delle regole, una bella dose di mistero, il kung fu, roba se vuoi non lontana da certe cose che avevamo noi in ambito hardcore. Stesse suggestioni? Stessi ascolti? BTW, giochi a scacchi?
LS: Prima di tutto ciao, e grazie mille per la pazienza e per l’interesse incondizionato (n.d.r.: è da un po’ che sto “seguendo” Lorenzo, diventato oramai la mia ossessione giornalistica), anche ora che siamo a un anno dall’uscita di ‘Scacco Matto’! Ma questo compleanno mi/ci permette di tornare a parlarne, quindi timing perfetto! Prima domanda, prima suggestione. A dire la verità il titolo, anche se mi è piaciuto molto il riferimento al Wu Tang Clan, non viene da lì. Ho un profondo rispetto per il Clan, ma ci sono arrivato “tardi”. Da giovane mi ero rifiutato di dedicarmi a certe cose, per un discorso di appartenenza. Ero meno maturo (negli ascolti) di te (n.d.r.: WOW, e con questa mi ritiro). Era bello riconoscersi in un gruppo (n.d.r. inteso come sottocultura, tribù), poteva risultare limitante, ma era così. Quindi tenevo lontano da me certe cose (tipo il Wu Tang). Il titolo viene fuori “un po’ così”, durante il processo di composizione e creazione del disco. Stavo facendo fatica, in studio, a metterlo assieme, a realizzarlo come volevo. Era una lotta con me stesso. Da una parte avevo delle idee, volevo provare delle cose nuove: dall’altra volevo confermare in maniera molto precisa tutto il percorso che avevo fatto nei dischi passati. Insomma, cambiare visione, restando fedele, sia a livello musicale che a livello concettuale, a quello che avevo sempre fatto. Questo contrasto mi stava dando grossi problemi. In quel periodo ho incominciato a riscoprire il gioco degli scacchi. Non ero un appassionato, ma mi piaceva. E’ stato un bellissimo spunto per capire cosa mi stava succedendo. Ho letto tanti libri, tante interviste a riguardo. Tantissimi si riferiscono agli scacchi come ad un gioco con se stessi prima che con l’avversario. Ho iniziato a capire che quello che stavo facendo era un sfida con me stesso: gli scacchi mi hanno aiutato a costruire una narrativa, mi hanno dato molti spunti per mettere un po’ di ordine. Sono poi andato a incontrare Kasparov a Monaco, e ho avuto modo di scambiarci qualche parola. Tutto stava prendendo forma. Mi piaceva il discorso introspettivo, e mi piaceva anche utilizzare un’espressione in italiano. Anche in questo caso, era per dare continuità ad un’idea che avevo realizzato in precedenza, con ‘Persona’ (n.d.r. primo disco per la Warp).
SD: ‘Discipline Of Enthusiasm’ – In generale disciplina ed entusiasmo vanno insieme nella musica elettronica, non mi viene in mente il caos quando penso a te, o ai tuoi colleghi. Qui l’accostamento, per uscire un po’ dal seminato, lo potrei fare con Romare, visto in concerto a Miami (non vanno a Miami solo i musicisti, ci vanno anche gli ingegneri) prima che vedessi te (a Parma). Lui (almeno in quel set) molto più organico che “glaciale” (ma forse anche tu non sei sempre “glaciale”?). Comunque mi chiedevo cosa pensi/ascolti dei tuoi “diretti” concorrenti, vedi Ninja Tune (Romare’s). Mi aspetto che essendo un voyeur ascolti molta roba: ma con che spirito? Parentesi, hai i famosi scheletri nell’armadio? Io, per esempio, godo quando passa ‘Levels’ di Avicii.
LS: Per quanto riguarda ‘Discipline Of Enthusiasm’, ti posso dire che è il titolo che ha dato ad una mia intervista un bravissimo giornalista che si chiama Philip Sherburne. Scrive per tante testate, tra cui Pitchfork (tanto per cambiare/NDR). Mi piacque subito, penso che mi descriva molto bene. La parola disciplina mi riporta alle mie origini hardcore, in particolare alle dinamiche straight edge. Ho vissuto quel periodo, senza “sconfinare” nell’hardline. Ma non voglio entrare in troppi dettagli, visto che l’idea originale è stata poi “interpretata” in maniera controversa (n.d.r.: cose di cui stiamo discutendo e ri-discutendo dall’uscita di ‘Disconnection’ e di ‘Schegge Di Rumore’). Disciplina, dicevo. Mi è sempre piaciuto saper essere in grado di fare quello che si vuole fare, e di non fare quello che non si vuole fare. Entusiasmo, qui si entra nella sfera personale. Sherburne ha colto il fatto che sono una persona molto entusiasta, nei confronti di quello che faccio e di quello in cui credo. Non mi tengo mai quando c’è la possibilità di esprimermi, nel mio lavoro, piuttosto che rispetto alle cose che mi piacciono, o che reputo di un qualche valore. ‘Discipline Of Enthusiasm’ è un ossimoro, e secondo me rappresenta bene anche nella musica che faccio: elettronica, clubbing, ma non esattamente ballabile. Ci sono dinamiche contrastanti che condividono lo stesso spazio nella mia musica. Per tornare alla tua domanda, sono un tipo abbastanza disciplinato anche negli ascolti. Penso di essere informato riguardo a quello che mi succede attorno, per quanto sia difficile, vista la quantità di cose che esce. Sono sicuramente attento a quello che fanno i miei colleghi. Chiaro: potrebbero essere tantissimi da seguire! Quindi prediligo quelli che sento più vicini, quelli che conosco. Sono curioso di vedere cosa fanno, e se li conosco sono ancora più curioso! Mi interessa vedere qual’è il loro percorso artistico, di analizzare in che modo, attraverso quali mezzi si produce e si realizza la loro personalità. Devo ammettere che ascolto tanto rock, in generale tanta musica suonata da “vere” band, e con strumenti diciamo più classici. A partire da semplici power trio, piuttosto che i nuovi gruppi hardcore che vengono dagli Stati Uniti, ma anche tante cose vecchie. Sto riscoprendo tante cose italiane che non conoscevo, cose che risalgono a 10-15 anni fa, periodo in cui seguivo meno ciò che succedeva in Italia. Penso di esser molto attento a quello che succede nell’ambito musicale, fino ad arrivare alle cose più pop. Detto questo, sono molto critico. Penso che pochi progetti esprimano delle idee interessanti. Usando un termine molto brutto, Simon Reynolds parlò di me in un articolo in cui mi metteva assieme ad Arca e Sophie, definendo la nostra proposta come “Conceptronica”. Giustamente, perché in effetti siamo cresciuti tutti nello stesso periodo, condividendo tante cose, più o meno esplicite. Reynolds faceva riferimento a musica elettronica con una forte componente concettuale. Non so se vale anche per gli altri nomi dell’articolo. A me interessa molto questo lato: cerco sempre di sposare le mie sonorità con delle idee, e cerco sempre di fare in modo che i riferimenti possano essere tangibili, possano essere riconoscibili abbastanza facilmente. Spesso (n.d.r.: il riferimento è alla scena di sui sopra) non è così. Spesso ci sono dei progetti in cui si parla di idee filosofiche più o meno musicali, ma è davvero difficile coglierne il senso, piuttosto che “toccare” il legame. Preferisco fare cose semplici, fare in modo che ci sia una precisa connessione, come tirare una linea. Riguardo agli scheletri nell’armadio… eccome se ne ho! Quelli musicali direi di averli resi abbastanza espliciti, pensa a ciò che ho fatto su Justin Bieber, o cose del genere. Non ho paura di lasciarmi andare e di essere giudicato: questo non è mai stato un mio problema.
SD: ‘XBreakingEgeX’ – Qui il rimando allo straight edge e all’hardcore è direi ovvio. Mi chiedo cosa ti è rimasto di quell’esperienza. E mi chiedo anche se ti capita, andando in giro per le “gallerie d’arte”, che ti venga mai l’idea che ti stiano guardando un po’ tipo “zoo”, proprio per questi trascorsi underground. Una volta a Camden Town, ad un banchetto di mixtape ragga, delle tipe fotografavano il rasta dietro al banco. Il tipo ovviamente si è incazzato: “ma mica sono la vostra scimmietta da fotografare!”. Mi interessa questo rapporto tra alto e basso, e sapere cosa succede quando si rompe quel confine.
LS: ‘XBreakingEgeX’ è ovviamente un rimando a quel passato, che mi fa sempre piacere ricordare. Fortunatamente, avendo amici più legati all’universo gabber e hardcore (inteso come elettronica), ho imparato a vivere il mio essere straight edge in maniera molto tranquilla e assolutamente non estrema. Per intenderci, non come gli una volta hardline, ora amanti della cotoletta e del vino. Non essendo così estremo mi sono trovato a continuare: penso di avere trovato un certo equilibrio. Mi è piaciuto anche cercare di unire quest’idea, in maniera più concettuale, alla mia musica. Parlo di “sober dance music”. Non c’è la cassa, quindi non è ballabile, quindi è “sobria”. Ovviamente nel mio ambiente sono visto come una mosca bianca. Sono una mosca bianca a livello di backstage, non bevendo, non facendo uso di sostanze. Ma anche musicalmente sono considerato una mosca bianca: la musica che faccio non è una cosa facile da categorizzare, o da avvicinare ad un genere preciso. C’è sempre, comunque, un certo rispetto. Si sa benissimo cosa significhi al mondo d’oggi essere “sobri”, specialmente nel mondo della musica elettronica. Si sa benissimo quali e quanti siano i problemi che certe sostanze, ma anche solo l’alcol, creano. Parlo con colleghi un po’ più vicino a me, che sono purtroppo abituati ad un certo stile di vita che comprende anche queste cose. Finisce che non riesci a salire sul palco se non hai bevuto tre gin tonic e se non hai pippato. Diventa difficile liberarsi di questo tipo di abitudini. Insomma, penso che mi vedano come una mosca bianca, sì… ma anche con un po’ di invidia. Si rendono conto che il mio risveglio la mattina è decisamente migliore del loro! Riguardo all’hardcore, ed a quel particolare periodo. Penso che mi abbia insegnato questo discorso del “non mollare”. Fare le cose da te. Fare le cose come le vuoi fare, contando sull’aiuto di chi ti è vicino. Chi ti può appunto aiutare senza chiedere tanto. Tutto ciò che sta sotto all’ombrello del D.I.Y.: credo che questo faccia la differenza in ambito artistico, piuttosto che in ambito “gestione di una carriera”. Sei abituato fin da giovane a stampare il tuo vinile, piuttosto che a disegnare le tue magliette, o a preparare il tuo flyer e a mettere tutto sul tavolo del merch. Alla fine ritrovi il tutto, solo un po’ più in grande, man mano che il progetto cresce. Le dinamiche, i meccanismi e l’entusiasmo sono gli stessi. Devi fare in modo che tutto funzioni, e che tu riesca ad andare avanti contento di quello che fai. Sicuramente chi ha vissuto ed è cresciuto in questi contesti ha già un certo tipo di attitudine. Devo ammettere che anche a me capita di venire a sapere che quando qualcuno sta riuscendo bene in un qualcosa spesso è venuto su da un contesto punk hardcore, o comunque da un ambiente DIY.
SD: ‘Move In Silence (Only Speak When It’s Time To Say Checkmate)’ – Documentario su ‘Tavola Rasa Elettrificata’. CSI. Mongolia. Zamboni e Ferretti dalla parte del silenzio, della quiete. Canali dalla parte del rumore. Il gruppo, poi, si scioglie. Mi ritrovo molto con Canali che dice: “io comporrei sempre e solo dietro alla stazione, con i treni che passano”. Qual è il tuo rapporto con il rumore? E con il silenzio? ‘Move In Silence’ è la condizione perfetta per i “guardoni”, o no?
LS: Yes, ci hai preso. Volevo descrivere un’attitudine, la mia attitudine. Non sono uno che si perde in troppe chiacchiere: sono uno che va abbastanza diretto. Cerco di sviluppare quello che voglio fare nel miglior modo possibile. Cerco di comunicarlo nel modo più efficace e diretto ma anche coerente con quello che sono e con quello che voglio dire. Per esempio, spesso uso dei degli slogan, o dei motti che poi adatto al concetto. Mi piacciono molto, per esempio, i discorsi che vengono dal mondo del fitness o della palestra, sai quelle cose un po’ motivazionali? Sento che potrei essere anche un buon coach. Mi immedesimo abbastanza in quel ruolo. Quindi non tanto dire alle persone cosa dovrebbero fare, quanto dare dei consigli che mi sembrano corretti. ‘Move In Silence (Only Speak When It’s Time To Say Checkmate)’ è una frase che racchiude un approccio generale alla musica e alla vita. Mi piace molto perché io ci metto tanto impegno in quello che faccio, ed alla fine quello che si vede è solo la classica punta dell’iceberg. Tutto questo lavoro, tutta questa dedizione è un po’ quello che mi fa andare avanti, più del successo o meno del disco, più del suonare o meno ad Sonar…
SD: ‘Canone Infinito’ – Qui, avendo visto l’opera in terapia intensiva a Bergamo, il riferimento è obbligato a quel ‘Canone Infinito’. Mi chiedo come mai metterla nell’album portandola fuori dall’ospedale. Mi chiedo come mai non differenziarla (parlo del titolo). Con tutto quello che è successo dopo, col Covid, mi chiedevo se ci avessi pensato, se in qualche maniera il progetto ti avesse scosso, ancora di più.
LS: ‘Canone Infinito’ è semplicemente il titolo di un libro di teoria musicale che ho studiato all’Università. Si tratta di un libro di Loris Azzaroni, sottotitolato ‘Lineamenti Di Teoria Della Musica’. Un titolo che mi piacque da subito, e quindi l’ho voluto riutilizzare. Ho pensato che le due cose non sarebbero andate ad interferire più di tanto. Poi, quando si è parlato molto di terapie intensive (n.d.r. ci riferiamo a Bergamo e al ‘Canone Infinito’ composto da Senni per “alleggerire” l’attesa in quella terapia intensiva, ricordiamolo una volta in più), ovviamente il discorso è tornato un pochino più attuale, soprattutto quando stava uscendo il disco. Ma non è stato un grosso problema: solitamente sono più bravo a tenere divise le cose e ad essere preciso. In questo caso, come dicevo, era un titolo che mi piaceva molto; quando è venuto fuori questo pezzo in studio ho pensato di inserirlo nel disco e gli ho voluto dare quel nome. Il pezzo rispecchiava questa sorta di spirale, il canone come è descritto nel libro: queste strutture e formule musicali che si ripetono in un modo specifico. Insomma è un titolo che mi suonava bene. A differenza di molti altri titoli che ho usato, che sono più diretti, questo è un pochino più astratto e riguarda più la sensazione del pezzo, che qualcosa di specifico o tecnico. Mi sto perdendo: le due tracce non hanno niente in comune, se non il titolo!
SD: ‘Dance Tonight, Revolution Tomorrow’ – Qui viene facile pensare alla rave generation, alla summer of love, all’acid house etc. Quando sei entrato in contatto con quel mondo? Assumo che il fatto di essere “romagnolo” sia stato determinante, visto che qui a Milano (a mio modo di vedere) la separazione era molto più marcata, e la situazione era molto “settoriale”. Quindi BEATO TE!
LS: ‘Dance Tonight, Revolution Tomorrow’ viene dagli Orchid (n.d.r. wow!). A me serviva per spiegare il mio background. Come hai un po’ accennato tu, vivendo a Cesena ed essendo così vicino alla riviera sono cresciuto in un background molto eterogeneo, e soprattutto legato a due fazioni. Io ero un fan di ragazzi un po’ più grandi di me che suonavano in gruppi hardcore straight edge come Sentence o Reprisal. I Sentence sono di Cesena quindi li andavo a vedere in sala prove. Era quello che mi appassionava, quello che seguivo durante la settimana, durante la mia la mia vita da studente delle scuole superiori a Cesena. Nel weekend, quando passavo più tempo nel mio paesino, ero più soggetto all’influenza degli amici del bar. Parliamo di provincia. Gli amici del bar che erano dei frequentatori del Cocoricò, del Gheodrome, si andava qualche volta al Number One… erano degli hardcore warriors piuttosto che dei gabber. Quindi io sono cresciuto in questo limbo dove mi dividevo puntualmente tra questi due gruppi di amicizie. Per come sono io caratterialmente, penso che entrambe mi accettavano in maniera molto molto tranquilla. Potevo appunto andare ad ascoltare i Sentence in sala prove, per poi ritrovarmi in giro con questi ragazzi che andavano al Gheodrome! Diciamo che l’anello di congiunzione era un caro amico, mio compagno di classe, che era un hardcore warrior, spacciatore, che mi ha introdotto in questo suo gruppo e poi ha spiegato ai suoi amici più stretti che anche se io non facevo uso di sostanze come tutti loro, potevo essere ben accetto e molto carico per uscire! Da una parte l’hardcore straight edge, dall’altra l’elettronica/gabber: da molto giovane sono venuto a contatto con due realtà molto diverse che però, col senno di poi, mi hanno entrambe influenzato molto. Proprio qui direi nasca l’idea del “Rave Voyeurism”: tutta quell’esperienza personale di avere vissuto certe cose in un modo un pochino diverso, inusuale, magari come un voyeur, appunto.
SD: ‘The Power Of Failing’ – Titolo molto forte. Sottopressione: ‘Distruggersi Per Poi Risorgere’. Ma pure tutto il discorso fede/religione/spiritualità, che in un certo periodo era rilevante dalle nostre parti (Krishna-Core et similia). Sto volando troppo in alto? Ti riferivi “semplicemente” al saper perdere?
LS: ‘The Power Of Failing’? Disco dei Mineral, ma anche tanto altro. Diciamo che era un momento in cui non mi stavano tanto simpatici i social. Mi spiego. Facendo un disco ti chiedi se piacerà, se ci farò qualche concerto dopo, se la Warp ne venderà qualche copia. Poi, conoscendo la “music industry” da un pochino più dentro, capisci che queste cose non sono così importanti, fortunatamente, per il contesto in cui mi muovo. Comunque ci sono dei soldi che vengono investiti e dei soldi che eventualmente devono tornare. Questa la preoccupazione che mi viene per le persone che mi hanno dato fiducia. La preoccupazione mia, più personale, riguarda invece la domanda “questo disco piacerà o non piacerà a chi mi segue? ‘Scacco Matto’ era una specie di reazione a tutto questo. Non piace? Sarei contento lo stesso, e quindi va bene fallire. In senso ampio fallire non significa non essere felici: anzi, fallire ti mette davanti a certe dinamiche che è bene incontrare. Non sono andato troppo fondo nell’argomento però mi piaceva molto pensare a questo: mi è capitato in passato di cercare di fare una cosa al meglio, di cui potevo essere felice del risultato, ma senza raggiungere certi standard richiesti. Magari per qualche motivo non sono riuscito in una determinata cosa? Anche questo “fallimento” ha avuto sempre e comunque dei risvolti (buoni) nella mia esperienza successiva. Forse perché ho un’attitudine abbastanza positiva. Era un semplice riferimento all’idea di non dover sempre e per forza fare tutto bene, come oggi siamo portati a pensare. In generale mi sono sempre stati simpatici i loser, gli outsider. Questa cosa va un po’ a pari passo col non riuscire a incontrare degli standard richiesti. Comunque, anche qui mi sto perdendo, il titolo viene da un disco dei Mineral, quello in cui c’è anche ‘Gloria’, uno dei loro pezzi famosi.
SD: ‘Wasting Time Writing Lorenzo Senni Songs’ – Gli Anal Cunt mi danno un paio di spunti. UNO. Collegato a prima. Il tuo essere guardone dove ti porta/dove ti ha portato a livello di ascolti. Il Grind è la cosa più LONTANA da quello che fai! DUE. Seth era uno dei personaggi più “stronzi” della scena. Torniamo a prima: essere “guardoni” è una cosa “sana”?? Essere “guardoni” non è qualcosa cosa che porta inevitabilmente alla solitudine, ed alla “paranoia” di dover vedere/fare tutto?
LS: Gli Anal Cunt li ho conosciuti grazie ad un mio capo, parlo di un lavoro estivo. Per undici stagioni consecutive ho lavorato in un magazzino di sementi. Il mio compito era “impedanare”, praticamente fare dei piani di sacchi da 25 kg sopra un pallet che poi veniva spedito. Era un lavoro pesante, per quello era pagato bene. Il mio capo era un personaggio molto particolare, che però mi aveva preso in simpatia. Ero l’unico a cui era permesso ascoltare la musica mentre si lavora. Ero anche uno dei pochi italiani in tutto il magazzino. Però dopo i primi giorni ci siamo scoperti avere tante passioni in comune, tra cui la musica. Lui ha “imparato” a ordinare dischi e merch on-line, cose che io facevo già per me ed i miei amici. Io ho scoperto tante cose più legate al grind ed al metal, visto che lui era un appassionato di quei generi, ma anche tanto rock in generale! Gli Anal Cunt me li ha fatti scoprire lui. Dal punto di vista musicale devo dire che non mi hanno mai entusiasmato, faccio fatica ad ascoltarli. Però sicuramente mi ha colpito l’attitudine, tutto il livello grafico, e soprattutto i titoli dei brani. Mi sono andato a leggere la storia di Seth, ed anche quella mi ha colpito. Se ci pensi: forse adesso non si può neanche dire che ascolti gli Anal Cunt, siamo talmente politically correct☹. Però appunto mi hanno colpito subito, tanto che poi nel disco ‘Scacco Matto’, nello sticker in alto a sinistra, le “x” di L(orenzo) S(enni) sono proprio le “x” degli Anal Cunt, le abbiamo prese “paro paro”! Riguardo al suo essere “stronzo”, e ad eventuali punti in comune con me. Se viene fuori questo accostamento, è forse perché io sono molto specifico nel modo in cui comunico le mie cose; non mi perdo troppo in altro, mi interessa la musica e mi interessa pensare a quello che faccio. Non sono uno che si siede e fa dei suoni senza chiedersi cosa sta facendo. Quindi, se mi è stato fatto presente che sono uno “stronzo”, penso ci si riferisca a questo mio modo di essere molto dentro al mio trip, senza lasciare spazio ad altro. Sembra che me la tiri, sembro un po’ snob, ma è solamente il fatto che non mi interessa molto altro. E ancora di più non mi interessa condividere molto della mia vita personale. Detto ciò, non so se questa cosa si sposi con la questione di essere dei voyeur in senso musicale, perché in quel mondo penso di essermi sempre comportato in modo molto cristallino, con tutti.
SD: ‘Think BIG’ – Gran finale. Che forse risponde un po’ ai dubbi del punto precedente. Pensare in grande. Alzare la barra. Arrivare a Warp. Bilancio? Curiosità: a livello “monetario” ne è valsa la pena?
LS: ‘Think Big’ è quell’attitudine positiva che mi porto dietro in tutto quello che faccio. Credere a quello che si fa e pensare possa essere rilevante. Alla fine il titolo è proprio un link diretto a tutto quel mondo di cui abbiamo detto prima: lo straight edge hardcore. Penso che una riga di testo di tante band che mi piacciono o mi sono piaciute potrebbe tranquillamente finire in un mio titolo. Comunque è un titolo che racchiude bene l’idea di averci creduto e di essere finito su una delle etichette più importanti per quanto riguarda la musica elettronica. Intendiamoci, questo vuol dire tutto e niente, ma sicuramente è una bella soddisfazione personale. Mi chiedi anche se dal punto di vista economico questo abbia fatto la differenza. La risposta è sì, ma non tanto in termini di contratti firmati, non tanto in termini “formali”. Parlo del fatto che posso continuare a fare il mio lavoro, che è quello di fare musica e di suonarla in giro, anche per gli altri. Ora sto lavorando su roba nuova, e sto pensando un pochino a dove questa “roba nuova” potrebbe portare. Sicuramente mi interessa fare ancora qualcosa con Warp. Però bisogna vedere dove vado a finire: tutto è ancora da decifrare. In studio ho provato tante cose nuove, ma ancora nessuna mi ha soddisfatto. I tempi del mondo musicale non sono esattamente quelli per cui ci si può prendere troppo spazio. Ma io fortunatamente ho i miei tempi: quando sarò contento di qualcosa, qualcosa eventualmente uscirà. Sto provando a fare delle cose in direzioni abbastanza disparate, ma tutte ancora giustificate da un’idea, quell’idea di ‘Scacco Matto’, l’evoluzione di quello che ho fatto in precedenza. Quindi non so cosa finirò per fare, ma sono sicuro che dal punto di vista del progetto in generale sarà un disco nel quale chi mi ha seguito può trovare dei punti in comune con quello che ho gia’ fatto in precedenza, oltre che delle altre cose che stanno guardando ad una direzione nuova.
(Txt by fmazza1972 x Salad Days Mag – All Rights Reserved)
Marthe – interview
June 1, 2021 | Salad DaysTutto parte (per me) dalla famosa recensione su Decibel, pezzo super voluto dal mega direttore in persona (leggete tutto, qui sotto, e capirete).
Tutto passa dall’ennesima ristampa (quella in vinile è su Agipunk) di ‘Sisters Of Darkness’. Il risultato? Questa intervista su Salad Days, super voluta dal sottoscritto (ok, non sono il mega direttore, ma penso di essere il secondo più “experienced” della crew, per non dire vecchio). Per i più attenti, per gli amanti del gossip, Marthe appare anche in ‘Disconnection’, nel (secondo me) molto interessante capitolo sulle donne. Insomma, super contento!
SD: Fare doom, e fare doom a Bologna: quali sono le tue origini?
M: Per chi vorrà leggere, il mio percorso musicale inizia in un piccolo paese ligure a un uno sputo dalla Toscana, un luogo stupendo ma sterile in termini di esperienze e situazioni (salvo la mitologica Skaletta, Bad Trip, i Fall Out, Manges, Peawees, il Civico anni’90 e poco altro), che quindi mi ha spinto a esplorare e guardarmi attorno, da Genova a Londra a Bologna dove mi sono stabilita. Appena ho un attimo torno dai miei, una famiglia super, per godere dei boschi, delle spiagge, delle coste inospitali e delle montagne isolate che sono riemerse in me sotto forma di questo progetto solista dal nome Marthe, la proiezione di me stessa più speculare ad oggi. Tra pochi mesi compio 40 anni. Nella Spezia anni’90 ho scoperto il metal, le riot grrrl e l’anarcopunk suonando in vari gruppi. Poi a inizio 2000 ho incontrato la balotta novarese/varesotta impiantata a Carrara che ha portato alla formazione dei Campus Sterminii assieme a Koppa (Horror Vacui / Agipunk), Gra (Motron) e Je (Saturnine) e all’apertura della breccia nello stench/crust di cui i Campus sono stati uno dei primissimi gruppi italiani. Nel 2004 sono entrata nei Kontatto con i miei fratelli Marione, Febo e Ago (Motron e Pioggia Nera), passaggio che mi ha marchiato con la fiamma del Dbeat, secondo vero amore (il primo è il metal, ma non sono pro: ascolto sempre la stessa roba da quando ho 13 anni). Con i Campus e i Kontatto sono partiti i primi veri tour nazionali ed esteri, un’infinità di concerti ed esperienze di squat e occupazioni (compresa la parentesi londinese nel 2005 con i Death From Above). La quantità di gente conosciuta in questi 25 anni è direttamente proporzionale all’essere una completa “rimastona” che non riconosce le facce e spesso per questo motivo (oltre a vederci malissimo) non saluta. Sigh. Nel 2010 nascono gli Horror Vacui con base a Bologna, molto legati alla realtà di Atlantide e XM24 dove abbiamo registrato la prima demo e fatto le prime prove. Ho preso parte al progetto perché volevo provare a suonare un altro strumento oltre alla batteria e divertirmi con un genere meno estremo (un investimento per la vecchiaia). Mi è sempre piaciuto il post punk, abitare a Londra ha amplificato questa passione (serate epiche in club allucinanti) quindi formare un gruppo death rock è venuto da sé in quanto se amo molto un genere mi viene spontaneo suonarlo attivamente. Non sono però una che cavalca l’onda e scende, generalmente mi tiro dietro nel tempo tutti i gruppi in cui suono ma ovviamente alcuni si sono persi per strada per motivi vari e sempre molto concreti/inevitabili. Avvicinandomi al motivo di questa intervista, l’unica cosa che non sono mai riuscita ad avere è un gruppo metal, nonostante sia da sempre un mio desiderio. C’è stata la parentesi Ancient Cult (con tra gli altri gente dei Tenebra e il mitico Francesco Faniello, uno dei chitarristi più clamorosi mai visti nonché enciclopedia musicale vivente, un maestro in tutti i sensi) ma si trattava più di rock’70, mentre io desideravo da sempre doppie spedalate e odore di balsamo da condividere assieme ad altri coltivatori di capelli come me. Nel 2016 ho iniziato a sperimentare atmosfere pesanti e plumbee con i Mountain Moon, gruppo strumentale chiamato scherzosamente “musica da camera ardente” assieme a Gabri (Dolpo), Gianluca (Brutal Birthday/Freakout) e Lucio (Messnr). Questa esperienza mi ha aperto nuove porte in termini di sonorità, sull’onda di quello che stavano già contribuendo a fare gli Horror Vacui con chorus e riverberi a mina (cose che però avevano anche i Wretched ahhh!) e mi ha aiutato a distaccarmi dalle convenzioni musicali che ho sempre più o meno inconsapevolmente seguito, retaggio dell’immediatezza del punk: pezzi brevi, strutture classiche strofa ritornello bridge, testi politicizzati. Quando ho preso in mano i riff che avevo cantato nelle varie note vocali dei vari cellulari e che sarebbero diventate le canzoni di Marthe, ho voluto per la prima volta lasciarmi andare e mettere in pratica tutti gli insegnamenti e input ricevuti negli anni: la sporcizia del crust, la genuinità del punk, l’epicità di certo metal, l’atmosfera del synth, il cantato da coro delle streghe donaneghe. Il risultato, ‘Sisters Of Darkness’, lo giudico come un bilancio dei miei (primi) 40 anni di vita, e credo sia un bilancio positivo vista la quantità di feedback positivi ricevuti e dalle continue richieste di ristampe per questa demo di quattro pezzi, che mi ha reso molto felice, gratificata, ma anche creato una certa strizza poiché adesso c’è dell’aspettativa. Per tornare alla tua domanda le mie origini e il mio percorso mi impongono certi paletti: sono cresciuta in contesti punk, diy ed estremamente politicizzati quindi non riesco a far svettare la sola componente musicale su quella antifascista e politica. Questo, specialmente in ambito metal dove spesso spuntano i coglionazzi che credono che la musica annulli i divari etici, mi impone di fare le pulci a ogni persona, richiesta, proposta, collaborazione, e questo mi penalizzerà come sempre poiché mi precluderà di esplorare strade nuove ma ignote. Sticazzi, tanto ormai dove devo andare? Ovviamente questo non accade con i gruppi punk perché la selezione vien da sé, ma nel metal c’è ogni tanto il rischio di pestare una merda. Anche per questo motivo sono stata molto contenta quando Agipunk mi ha inaspettatamente proposto di stampare il disco, dico inaspettatamente perché è un’etichetta principalmente incentrata sul punk e l’hc, meno sul metal. Ho ricevuto altre proposte anche interessanti ma non ne conoscevo molto quindi ero un po’ indecisa. Agipunk è una label integerrima da più di due decadi di cui io ero mega fan da sempre, e sapere che è un’etichetta solida, senza ambiguità di sorta ma anzi, schierata e politicizzata mi ha fatto sentire a casa. Ad oggi, questa “selezione” mi ha preservata nella mia adorabile comfort zone dove non sono un cazzo di nessuno ma sto una favola.
SD: Fare doom essendo una donna. Qui devo dire che viaggi molto meglio che nell’hardcore. Penso a Kylesa, penso ad Acid King (non doom, ma da paura). Ma anche nei vari Mono, Boris etc c’è sempre una donna… e che donne!
M: Nonostante la mia adolescenza in un gruppo riot non mi sono mai percepita in termini sessuali, ho sempre suonato e basta, generalmente in gruppi misti (tranne le Pussy Face e le Doxie). Riguardo alle “quote rosa” nella musica estrema ho sempre in mente un dato: alla scuola di musica dove ho iniziato a suonare il pianoforte dalle elementari fino alle medie eravamo maschi e femmine insieme, studiavamo insieme e facevamo i saggi di musica insieme ma nessuno ha mai messo in evidenza il fatto che le bambine suonassero uno strumento, o se lo suonassero bene o male, meglio dei maschi o se ci fossero meno femmine che maschi al saggio finale. Solo quando ho preso in mano le bacchette in un gruppo punk mi è stato fatto notare che rappresentavo una “minoranza” allo strumento, ma per me era uno strumento come un altro, che ho iniziato a suonare a caso un giorno che la batterista del mio primo gruppetto ha paccato le prove. Ho imparato la sessualizzazione della musica, che però credo sia legata a generi pesanti, estremi o a strumenti specifici, ma eccezione fatta per alcune realtà super provinciali di fine anni’90 non ho mai ricevuto nessuna discriminazione, battutina o ironia in ambito hc/punk. Magari l’hanno pensato senza dirlo, e hanno fatto bene. Potrei inoltrarmi in questo discorso ma rischierei di andare fuori tema. Il succo è che se ad esempio sei una ragazza e dipingi o fai danza per nessuno fai la differenza, mentre se vai in skateboard, in moto o suoni la batteria forse stimoli maggiormente curiosità e attenzione per una questione puramente di associazione ad un immaginario prettamente maschile (nelle sue manifestazioni mainstream originarie per lo meno). Ci ho sempre scherzato molto su, quando mi vengono fatti i complimenti dopo un set intanto li accetto senza falsa modestia perché sono una persona educata che fa complimenti a sua volta e poi, se sono in vena, a volte mi scappa un ironico “ma sì dai, non male per essere una donna”, ovviamente provocatorio e che ricalca il luogo comune più becero. Nel doom ci sono donne cardine, ma non è una scena che seguo molto in realtà né ci sono donne che mi abbiano particolarmente colpito o ispirato. A me hanno ispirato solo le L7 e ad oggi, nessuno le ha mai eguagliate: ai miei occhi erano un gruppo, non un gruppo di donne. Con la loro attitudine, energia e capacità hanno azzerato la dimensione sessuale, vittoria totale. Spesso viene fatto notare come, rispetto ai decenni precedenti, ci siano molte più donne in musica, ma per me questo è forse indice di una più semplice dinamica di avvicinamento alle risorse necessarie: studio, sale prova, strumenti, home recording, devices elettronici, auto promozione sui canali social. Una volta era forse un po’ più ardua, generalmente era “il tuo amico” che ti conduceva alla sala prove dove suonava con i suoi amici, così potevi vedere come si faceva e farlo a tua volta. Come è successo a me, grazie al mio amico Andrea (degli Oreyon, grazie al quale ho imparato a mettere la tracolla del basso dietro e non a mo’ di cravatta sciolta) e dove in questo non c’era né mansplaining né prevaricazione, solo amicizia e condivisione della comune e neonata passione per la musica. Spesso viene altresì fatta notare una cosa per me invece mega deprimente: ho letto articoli in cui si snocciolava una triste conta delle donne sul palco di un tal festival da parte di una musicista che era presente con il suo gruppo, e questa cosa mi ha lasciato un po’ perplessa perché l’ho interpretata come un’altezzosa e anche infantile insinuazione di superiorità rispetto ad altre donne che non suonano perché magari, semplicemente, non gli piace, come se poi suonare ti desse magicamente uno status di figa. Spesso c’è questa illazione di fondo, ovvero che si suoni per mettersi in mostra. Come se poi fosse una cosa facile raccogliere il coraggio e salire su un palco. Tra le donne c’è chi suona, c’è chi magari scrive di musica, supporta, va a concerti, fa arte o semplicemente si fa i cazzi suoi senza dover fare nulla in particolare per farsi annoverare nel gruppo delle persone cool. Ognuno fa quello che sente, senza dover render conto a nessuna lista delle appartenenti alla riserva indiana. Un’altra cosa di cui un po’ dispiaccio è che una donna debba per forza dar prova del suo valore o dimostrare qualcosa: ci sono un sacco di maschi che suonano di merda ma nessuno dice che suonano solo per farsi vedere o mettersi in mostra o darsi un tono, la gente dice solo che suonano di merda senza denigrarne le buone intenzioni, mentre spesso sulle donne ho sentito giudizi e critiche massacranti anche di tipo morale.
SD: Fare una one man band, essendo donna: qui la vedo più difficile: mi viene in mente solo Stefania degli Ovo. E comunque si dice one man band, mica one woman band.
M: Haha! Il senso lo abbiamo capito, l’importante è quello. Questa del gruppo “personal” è stata una scoperta anche per me, ma non ci avevo mai pensato, semplicemente nessuno mi cagava quando la buttavo lì per un gruppo metal ma in realtà non avevo una gran voglia di impegnarmi con le prove etc. Stefania è stata la prima che ho visto, a un 8 marzo preistorico alla Sede di Vigevano. Tagliava le verdure microfonandole, suonando cose e facendo una performance per me innovativa. Mi ha colpito soprattutto quanto ci credesse in quello che faceva (tornando alla prima risposta, sono talmente obsoleta sonoramente che ho iniziato a concepire queste sperimentazioni nel 2016, ahah), ci credeva talmente tanto che quella che all’inizio mi sembrava una cosa non per me già dopo pochi minuti mi ha rapito. Dopo di lei Miss Violetta, che non mi colpì per niente, invece. Ho molta stima per Stefania soprattutto per la sua dedizione alla concezione di performance, io non riuscirei mai a prendermi sul serio in qualcosa che non prevede l’organizzazione standard della band tradizionale, mentre lei performa usando il suo corpo come tramite e mezzo in una molteplicità di forme. In Marthe ho suonato qualche pendaglio, strumento del tuono e un tamburello, mi sono divertita a fare quello che per me è “fare l’artista”, ovviamente chiusa in camera da sola al riparo da occhi indiscreti. Nel 2006 ho conosciuto una tipa canadese quando da Londra sono andata alla reunion dei Mob47 a Stoccolma, e lei mi raccontava che aveva un gruppo blackmetal da sola, Dodsangel mi pare si chiamasse. Cioè, aveva intanto un pc, sapeva collegarsi dei microfoni e dei jack. Io a parte che il primo pc l’ho avuto nel 2010, ma non sapevo nemmeno cosa fosse una scheda audio. Per me era eroica e mi sarebbe troppo piaciuto farlo, mi dava proprio l’idea che potevi buttarci dentro il cazzo che ti pareva. Ci ho messo 12 anni a concretizzare questo desiderio, a cui poi non è che pensavo così tanto, però è indice anche del fatto che al Nord Europa erano/sono avanti anni luce rispetto al mondo musicale che conoscevo io. Al di là delle competenze tecniche penso a un semplice fatto (passatemi la banalizzazione del concetto, lo so che anche da noi accade anche se in misura minore): in America o appunto in Scandinavia hanno quasi sempre un basement in cui piazzano la loro roba e possono jammare e fare prove quanto gli pare, senza il limite delle due ore in saletta oppure dell’impossibilità di suonare nella tua cantina perché abiti a un metro dalla famiglia accanto con sette figli che dormono o il tipo che fa la notte e ti ammazza se suoni qualcosa di elettrico. Perché il mio vicino che suonava quattro ore il sax andava bene, ma se avessi messo una batteria in casa sarebbe arrivato il fronte armato per l’ora del silenzio perpetua! Avessi avuto uno spazio adeguato o isolato mi sarei portata giù un ampli e un microfono, ma invece non potevo imparare a urlare da sola, dovevo per forza andare in sala prove facendo un’ora di autobus e mi vergognavo ad andarci da sola che da fuori mi avrebbero sentita tutti che non sapevo fare un cazzo. Sono tutte cose che mi hanno inibito e rallentato, da sola e anche a livello di band, per il discorso di due ore settimanali e via. Ora, a 40 anni quasi suonati, mi sto costruendo lo “studio” sotto casa così non dovrò far ridere il palazzo come per la registrazione delle voci di Marthe, che sono avvenute dentro la confezione di cartone di un frigo con appesi i cuscini del letto. Avere uno studio personale in casa aiuterà anche le mie altre band nella fase compositiva. Fare questa cosa da sola mi ha permesso di confrontarmi con alcuni miei limiti tipo il fatidico palm mute (venuto fuori bene non si sa come) ma anche solo la scelta dei pedali e dei suoni. Io odio quello che non è analogico, non capisco le robe elettroniche dopo un trauma con un beat shift alla pianola nel 1989 davanti a 100 spettatori estasiati dalla mia esecuzione (‘Il Bel Danubio Blu’), ma il synth in qualche modo l’ho fatto suonare, la registrazione l’ho fatta andare, insomma, mi sono messa un po’ in gioco e mi sono divertita. Ora dovrei migliorare ma qui subentra un lato micidiale del mio carattere: la dozzinalità, so fare tante cose ma tutte male quindi non credo mi cimenterò in nuovi programmi di registrazione etc, con buona pace di Andrea Masbucci (Horror Vacui/Nuovo Testamento), il mio motivatore personale. Non conosco molte altre band complete formate da una sola donna, eccezione fatta per le mie due cantautrici solitarie preferite: Dorthia Cottrell dei Windhand versione solista e Kariti, nuova scoperta per me, semplicemente favolosa e dalla voce ipnotica (scoperta grazie a Stefania).
SD: Last, but not least, mi interessa molto questo discorso del fare musica a prescindere dal concerto, vedi anche i Darkthrone. Che programmi hai a riguardo? E mi piace molto che dalla tua camera/studio la tua musica sia arrivata a Decibel (ti ho scoperto lì).
M: La recensione di Decibel mi ha lasciato a bocca aperta, soprattutto perché è stata fortemente voluta dal mega direttore galattico in persona (o almeno, così mi è stato riportato dal “mio uomo” di oltreoceano). Non sono una grande lettrice di Decibel né di giornali musicali in generale ma sono davvero stata contenta perché ha definito Marthe come una delle cose più uniche e fresche degli ultimi tempi, e ringrazio. Il concerto vero e proprio sarebbe cosa buona e gusta ma c’è un dilemma interno: io non posso cantare, mi vergogno, non è il mio e l’ho fatto solo perché ero nascosta. Potrei cantare del pop paradossalmente, ma non una cosa che mi mette così a nudo in termini di rilascio energetico. Cantare è una pratica molto intima e solitaria per me. Poi proprio perché non mi sentivo sicura di me ho fatto letteralmente 9 take diverse di voce, tutte sovrapposte, così che il risultato finale fosse quasi un coro malefico e non solo una voce, dato che si sentiva molto che ero io alle mie orecchie. Quindi dal vivo avrei bisogno delle coriste, nel vero senso, dato che ho sovrainciso varie tonalità di voce. Per ora mi interessa fare un nuovo disco full, ho molte idee e una gran strizza di non saper replicare il buon risultato ottenuto ad oggi. Però anche chissene, non faccio i pezzi pensando a che ritorno avranno, non sono calcolatrice né brava a imitare nonostante le varie influenze presenti in Marthe. Ho sempre sognato un lungo periodo off per dedicarmi alla scrittura del nuovo disco ma nonostante più di un lockdown la mia ispirazione era a zero. Spero che potendo nuovamente uscire di casa ora riuscirò a mettermi lì e unire i vari riff che ho ad oggi canticchiati sul cellulare. Se dovesse esserci una mega richiesta potrei pensare a suonare live ma sinceramente preferisco comporre per regalare a chi mette su un disco un momento di ascolto intimo e solitario, è una sorta di dedica in cui il mio profondo essere viene percepito da un altro essere: fondamentalmente questo progetto vive di questo.
(Intervista di Francesco Mazza x Salad Days Mag, fotografie di Silvia Polmonari e Blue Lighthouse Media)
Bee Bee Sea vs Freez – double interview
May 7, 2021 | Salad DaysPer la serie “new garage italiano”, e grazie al mio omonimo Barcella, i.e. Wild Honey Records, ecco un’intervista parallela a Bee Bee Sea e Freez.
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Luca Indrio / Necrot – interview
March 22, 2021 | Salad DaysI Necrot, con ‘Mortal’, sono presenti in più o meno tutte le top delle riviste che contano. Non ci lasciamo sfuggire Luca Indrio, bassista e cantante, che in periodo vacanziero si deve sorbire i miei “deliri” a tema “meglio gli US o meglio l’Italia”.
D’altra parte l’ennesimo pezzo sulle loro influenze crust piuttosto che Incantation sarebbe decisamente fuori tempo! Se ci fossero dei credits per le interviste, un super grazie andrebbe a Koppa, senza la sua intercessione la mia richiesta sarebbe forse finita dietro a quella di Cerati…
SD: Il tema di cui mi piacerebbe parlare con te è abbastanza ovvio: le differenze tra US e Italia. Prima differenza. Come si sta a Oakland? Ci mandi una foto di dove vivi? Perché sei partito? Come è stato l’inizio? Leggo di San Francisco e di zone vicine diventate insostenibili causa vicinanza Silicon Valley… vero?
Luca Necrot: Ciao. Io sto a Oakland da 12 anni… “come si sta a Oakland”? Abbastanza bene, poi dipende da cosa vuoi fare, da quanti anni hai etc. In America le città cambiano molto nel giro di 10 anni: la gente si sposta molto, quindi diciamo che ci sono stati periodi diversi della mia vita, lì a Oakland. A 21 anni nel 2008 ci stavo molto bene: era un posto super marcione e mega economico, la vita non costava un cazzo e c’era un monte di posti dove facevano concerti. Concerti sia a casa di persone, che posti comparabili ai posti occupati anarchici italiani, che piccoli bar e club più grandi. Diciamo che c’era un po’ per tutti i livelli. Purtroppo qualche anno fa ci fu un incidente: in uno di questi posti underground scoppiò un incendio e tanta gente perse la vita intrappolata dentro a uno dei tanti posti “illegali” che facevano serate. Da lì la città ha dovuto stringere la cinghia su queste realtà e tanta gente ha dovuto smettere di fare eventi in luoghi non autorizzati perché rischiavano di perdere il posto dove non solo facevano serate, ma dove anche vivevano. Da lì i concerti sono passati principalmente in bar e veri e propri locali. San Francisco nel 2008 già stava diventando abbastanza cara ma non comparabile ai prezzi di ora. San Francisco e Oakland sono collegate, così come Berkeley e Richmond, dallo stesso sistema di metropolitana e da vari ponti sulla baia. San Francisco, essendo circondata dall’oceano, non può espandersi e per questo anche i prezzi degli affitti sono andati alle stelle essendo una città che offre tantissimo lavoro e che attrae tantissima gente da fuori. Era inevitabile che con il tempo anche i prezzi ad Oakland sarebbero saliti. Oakland era riuscita a mantenersi con prezzi abbordabili (cosa che è essenziale perché possa esserci una scena artistica) principalmente per il tasso di criminalità elevatissimo e il fatto che molti quartieri della città siano mal tenuti e cadenti. La vita a Oakland era una figata, c’erano tantissime band, l’erba più buona di tutta l’America e tanti posti dove potevi fare che cazzo ti pare. Le cose adesso sono cambiate ovviamente per colpa specialmente dell’industria del tech che ha portato troppi soldi e troppa gente nella Bay Area distruggendo la realtà locale.
SD: Seconda differenza. L’ambiente musicale. Ho visto tanti concerti negli States (mi è capitato di passarci delle settimane per lavoro). Ho sempre avuto l’impressione che anche i discorsi più “underground” lì da voi siano comunque molto più “regolari” e “regolamentati” che da noi (in Europa). No stage diving. No fumo. No alcol. Regole. Polizia. Etc. A fronte del “successo” (ci arriviamo dopo), ti manca un po’ la “sporcizia” di cui sopra? Ti manca un po’ di libertà? O il death è una nicchia “felice” in questo senso?
LN: Parlare degli USA in senso lato è come parlare dell’Europa in generale, è come andare a un concerto in Svizzera e dire che in Europa ci sono tante regole senza considerare tante altre città e realtà europee. In USA ci sono differenze enormi fra stato e stato, città e città. A me dell’Italia sinceramente non manca quasi niente a livello di concerti e in quanto a “sporcizia” e situazioni molto anarchiche penso che sono molto facili da trovare anche in USA. Io in USA mi sono sempre sentito molto libero, molto più che in Italia. Potevo avere affitti bassi, lavorare poco e guadagnare bene, flessibilità sul lavoro quando volevo andare in tour, posti economici dove puoi affittare al mese un posto dove fare le prove, furgoni a prezzi bassi, assicurazione del furgone economica, lo spazio dove parcheggiare il furgone anche per la strada, strumenti e amplificatori spettacolari a prezzi abbordabili, tanto tempo libero per poterti davvero dedicare alla musica, una scena con tantissima gente appassionata di musica che si supporta e si esalta a vicenda per i tuoi progetti. Mi manca l’Italia? Sinceramente no.
SD: Riguardo a sopra, penso anche al video su Revolver, quello dove parlavi della maglietta che ti aveva dato quel tipo, che poi era morto. Avevi molto “insistito” sull’aspetto underground della cosa… il fatto di essere una “famiglia”/una tribù. Ecco… negli States questa roba non è po’ “sparita” a scapito dei numeri? A scapito della troppa professionalità?
LN: In USA anche nei concerti più piccoli a casa di qualcuno ognuno si porta la sua back line perché ognuno ha il suo suono che è dato molto anche dagli amplificatori che usi non solo da come suoni. In USA la “professionalità” è più estesa ad ogni livello, la musica viene presa estremamente sul serio. Io sinceramente non ho mai vissuto una competizione nel mondo della musica anche perché in un paese come gli Stati Uniti anche se la tua band va bene e ci guadagni faresti sempre comunque molti più soldi mollando tutto e andando a fare un lavoro “normale” dove puoi guadagnare molto di più. Alla fine le persone che scelgono di fare della band la loro strada, costi quel che costi, sono viste con ammirazione non necessariamente con invidia. Comunque io ti capisco: è difficile comprendere come funzionano le cose in USA senza averci davvero vissuto. Ti confesso che i primi 2 o 3 anni che ho passato lì non ci avevo capito un cazzo nemmeno io! Non è facile: venendo dall’Italia cresciamo con la convinzione che come vanno le cose in Italia sia più bello o più brutto o più giusto o come dovrebbero essere le cose o semplicemente la normalità, ma in realtà sono convinzioni che chiunque nel mondo ha del suo paese. È necessario perdere tutto questo per riuscire a capire altre realtà senza fare sempre il paragone con ciò che a noi è familiare o pensando in termini di meglio o peggio.
SD: Terza. La professionalità. È indubbio che da voi ci sia più professionalità che da noi. Riesci a vivere coi Necrot? ‘Mortal’ vi ha fatto fare il “salto”? Oppure non è automatico? E’ indubbio che da voi ci sia più meritocrazia. Vero? Oppure solo un’impressione da fuori. Ma a fronte di tutto questo c’è anche molta più concorrenza. Ci sono mille gruppi che fanno death. La cosa immagino sia un’arma a doppio taglio… i.e. bisogna
sbattersi di brutto per emergere. Vero? Falso?
LN: Allora, sì riusciamo a vivere con la band ma solo se andiamo in tour almeno 100-150 giorni l’anno. Sì bisogna sbattersi per anni prima che le cose comincino a girare (e non è mai detto)… e fare 100-150 giorni di tour all’anno è molto sbatti. Dai dischi guadagni molto poco quindi i live sono essenziali per una band death metal, visto che ovviamente nessuna band death metal vive di royalties, degli streaming su Spotify, né di vendite di copie del disco. Nessuno fa un disco di metal estremo e diventa magicamente famoso e cominciano ad arrivargli soldi dal cielo; forse negli anni 80/90 succedeva non so, ma ora no di certo. Il famoso “salto” non esiste, perché ci sono tantissime band che fanno dei bei dischi ed alla fine quelle che ce la fanno a trasformarlo in un lavoro vero e proprio sono quelle che vanno in tour di continuo e quindi mantengono l’attenzione generale sulla loro band a livello mondiale, e costantemente… più che un “salto” è un progresso lento dove dopo ogni tour, ogni nuovo disco diventi un pochino più conosciuto. Senza contare che se smettessimo di andare in tour in pochi anni saremo nel dimenticatoio e qualche altra band che ha voglia di sbattersi farebbe quello che stiamo facendo noi adesso.
SD: Quarto. Il mercato. C’è più mercato. Ci sono più etichette. Ci sono più posti dove suonare… etc. Vero? Legato a questo. Da noi l’underground è molto “sul territorio”. Quindi un gruppo significativo per me, milanese, come i Sottopressione… per qualcuno che sta a Bologna potrebbe essere sconosciuto. Lì da voi ci sono pure le distanze geografiche da superare. Mi piacerebbe sapere se funziona così anche da voi… o se le interazioni con gli altri stati sono comunque più facili che quelle tra un gruppo italiano che vuole andare in Francia.
LN: In USA è più facile perché parlano tutti la stessa lingua, stesso sistema postale vero: ci sono le distanze geografiche, ma anche autostrade gratis e benzina economica. In Europa molti paesi, specialmente Italia, Francia e Spagna, hanno i loro “eroi” locali – vedi di fatto i Sottopressione – sono paesi molto legati alla loro realtà del territorio: magari viene la band dal continente americano o dall’Europa, ma la stessa sera suona la band che è “storica” per quella regione? Vanno tutti a rivedersi la stessa band locale per la quattrocentesima volta. In USA è più semplice far le cose, è più semplice viaggiare, è più semplice che una band che diventa conosciuta in una città diventi conosciuta in tutta America. In Europa per esempio una band che diventa conosciuta in una città della Francia fa più fatica a diventare conosciuta in tutta Europa. In parte questo è semplicemente legato alla lingua… magari si scriveranno recensioni o articoli o interviste in francese o magari finiranno anche sulla copertina di una rivista di musica estrema/alternativa in Francia, ma fuori di lì nessuno nemmeno saprà che esisti. È un esempio un po’ esagerato però penso sia parte del perché in USA sia più facile far sì che qualcosa di ganzo che succede in California prima o poi arrivi anche fino all’altra costa.
SD: Quinto. I mezzi. Da noi ci sono studi/fonici che se sentono una chitarra distorta non sanno cosa fare. Da voi certi suoni sono stati inventati. Quindi non penso sia difficile trovare uno studio specializzato in death a pochi km da casa vostra. Gran figata… ma magari questo toglie un po’ di quell’originalità che veniva da situazioni “outsider”… in altre parole… la grossa disponibilità di mezzi/etichette etc etc… potrebbe anche creare un certo appiattimento. Come la vedi. Magari qui la tua “diversity” (essere italiano) ti è servita?
LN: Io penso che anche in Italia ci sono persone che sanno registrare musica estrema. In USA magari ci sono più opzioni e più gente che si dedica a questo. Diciamo in Italia c è più gente che magari per mancanza di opzioni va a registrare dove può, magari con qualcuno che del genere non capisce nulla e viene fuori una cosa più particolare dovuta dalla non conoscenza e il caso. Questa non mi sembra una cosa positiva. Positivo sarebbe registrare con qualcuno che ci capisce avendo idee chiare di qual è il tuo suono tu come band e usufruire di una persona che ha le capacità di riuscire a captare il tuo suono.
SD: Sono curioso anche di questo… lì negli States quanto vale essere italiano? Quanto ti serve? Quanto non ti interessa? BTW… tu hai passaporto Italiano…o US?
LN: Io sono andato via dall’Italia a 18 anni, ora ho entrambi i passaporti italiano e USA ma non dalla nascita. Vivo in California da 12 anni e passo gran parte dell’anno viaggiando con la band. L’essere italiano è parte di me, ma non mi sento di appartenere a nessun luogo in particolare. In realtà quando sono in USA so di essere straniero e quando sono in Italia mi sento ugualmente straniero dopo tanti anni fuori quindi boh? Sinceramente mi sento a mio agio ovunque senza sentirmi legato a nessuna bandiera in particolare.
SD: Sesto. La stampa. Voi siete un nome che è ultra presente su Decibel o Revolver. Riviste che spostano dei numeri (almeno, secondo me). Roba che quando leggo dico: WOW! Su Decibel hanno parlato di New Trolls, per esempio. Qui da noi ci si barcamena tra Rumore (che non leggo da anni… BTW, vi hanno intervistato?) le riviste di metal (che però sono illeggibili rispetto ai nomi di cui sopra)… insomma… l’impressione è che un po’ tutto il livello sia più alto. Vero? Falso?
LN: Chiaramente il livello negli Stati Uniti è più alto: guarda la storia della musica là rispetto a quella italiana… non c’è paragone. Poi in USA la gente in generale è molto appassionata di musica e non dimentichiamo che c’è molta più popolazione a cui vendere una rivista musicale rispetto all’Italia.
SD: Un po’ di trivial/curiosità. Pensando a voi, mi vengono in mente i Darkest Hour. Suonavano death… ma venivano dall’hardcore. Dal vivo spaccavano e spaccano. Ai tempi non li cagava nessuno… proprio perché i riferimenti erano “strani” per quel periodo. Ti piacciono?
LN: Non sono il mio genere preferito, ho conosciuto il batterista una volta che si è suonato con una band di cui era il batterista al tempo, comunque in USA erano una band gigante ai tempi quando il metal-core stava nascendo e band come loro o Black Dahlia Murder erano super popolari.
SD: Un’altra cosa, collegata. Leggendo le recensioni dei vostri primi demo si parlava sempre di influenze crust, che onestamente io non vedo così “forti”: immagino sia principalmente un discorso di “ascolti” o “sette”. Chi ascolta metal ci trova influenze crust, forse per la produzione sporca, o per i suoni un po’ più caotici… chi ascolta punk (il sottoscritto) non ce le trova (per intenderci: gli Anti Cimex sono un’altra cosa). Insomma: un’ennesima prova che magari è meglio non “catalogare”… o no?
LN: Per me la gente che parla della tua band online scrive quello che ci sente, ciò che viene dalle esperienze personali. Se ci paragoni a band super tecniche death metal uno può sentirci dei suoni più crust, più grezzi/semplici, se chi scrive viene da una scena puramente punk o crust siamo un gruppo totalmente metal. Dipende dal punto di vista e dal metro di giudizio di chi scrive. A me personalmente non importa molto, chi scrive reviews ha il difficile compito di descrivere una musica a parole, ma in realtà basta andare ad ascoltarla per farti la propria idea!
SD: BTW… cosa gira nel tuo stereo in questo periodo?
LN: Roba strana, musica rock in spagnolo tipo Caifanes, una specie di primi Litfiba messicani. La mia band italiana preferita di sempre, che sicuramente conosci, sono gli Skruigners.
SD: Mi ha colpito molto un’altra cosa. Ho letto molti vostri colleghi elogiare ‘Mortal’. E la cosa (almeno qui in Italia) non è così scontata. Grade lavoro, punto. Per dire: l’ultimo che ho visto parlarne bene è Bruno Dorella degli Ovo… che non pensavo ascoltasse più death! Segui qualcuno o qualcosa di noialtri?
LN: È difficile perché sono 12 anni che non vivo in Italia quindi tanti gruppi non esistono più o si sono formati quando io già non c’ero. Alcuni gruppi di amici tipo Noia di Firenze o gli Horror Vacui di Bologna mi fa piacere menzionarli.
SD: Ovvia domanda sul dopo Trump/Biden. Ma era tesa veramente, così come ci è stata descritta? Almost una guerra civile? O tutto questo è la narrativa europea? Cioè, che Trump fosse Trump non è mica ‘sta grande scoperta… o no? Un’altra cosa che mi incuriosisce, è il discorso voto. Ho sempre guardato con una certa “ammirazione” il rapporto molto “pragmatico” con la politica degli statunitensi. Fai qualcosa per me? Allora ti voto. Non fai qualcosa per me? Allora non ti voto. Discorso lontano mille miglia dalla nostra politica, che con la storia che “bisogna” andare a votare… si è un po’ impoverita. Ora però vedo un grosso attivismo dalle vostre parte di ambienti ultra punk che all’improvviso invitano al voto… bah?
LN: Trump è stato l’estremo del personaggio populista intollerante e razzista come se ne vedono tanti in Europa. L’invito a votare era perché tanta gente di solito non vota, riconoscendo che entrambi i partiti sono terrificanti. Ma questa volta c’era bisogno che tutti votassero perché con Trump si era toccato un punto talmente basso che era necessario in un modo o nell’altro saltarne fuori. Secondo me c’era e c’è tensione in USA anche perché la pandemia ha creato problemi enormi in una paese dove tutto è privatizzato, ma non penso ci sia mai stato un rischio reale di guerra civile, i giornali ingigantiscono tutto per vendere copie e creare più panico.
SD: Siamo riusciti a non parlar di Covid: come butta? Cosa state facendo non potendo suonare assieme? Hopefully vi vedremo in Europa nel 2021… SAREBBE BELLISSIMO! A questo punto ti senti più “americano”? Torneresti? Dove ti vedi tra 10 anni? US, Italia… o?
LN: Il Covid ha sconvolto i piani di tutti, io da 6 mesi vivo in Messico con la mia ragazza che è di qui. In 10 anni mi vedo cmq fra USA e Messico, sicuramente non in Europa. Speriamo nel 2021 di poter tornare a suonare dal vivo.
(franz1972 per Salad Days Mag)
Animals At The End inteview
March 8, 2021 | Salad DaysI romagnoli Animals At The End hanno appena pubblicato il loro EP di debutto, intitolato ‘Jayus’.
Abbiamo fatto loro alcune domande per scoprire di più su questa formazione dalla genesi particolare ma dalle idee molto chiare.
SD: Questo è il vostro EP di debutto, eppure l’idea di formare questo progetto esiste da molti anni. Come mai si è concretizzato solo adesso?
AATE: L’idea è nata più di 10 anni fa in un momento dove avevo altri progetti musicali in corso e questo è sempre stato più uno sfogo ed un esperimento per me, al tempo non avevo intenzione di creare una vera e propria band e registravo pre-produzioni da solo in salotto per divertimento. Nel 2017, dopo tre anni con due cover bands, ho sentito il bisogno di tornare a scrivere musica e suonarla live ed è venuto naturale pensare al progetto strumentale iniziato tanto tempo prima. Così ho iniziato a cercare musicisti interessati e finalmente nel 2019 abbiamo registrato ‘Jayus’ che abbiamo autoprodotto e pubblicato il 27 Novembre 2020.
SD: Nelle sonorità di ‘Jayus’ si passa da suoni dilatati e atmosfere soffuse a momenti più ritmati ed energici. Quanto è difficile trovare la combinazione tra questi elementi per creare un disco strumentale che non risulti monotono?
AATE: Il difficile non credo sia tanto nell’altalenarsi tra momenti delicati e aggressivi quanto più il riuscire ad amalgamarli perchè abbiano un senso, un filo emotivo che li leghi bene assieme, la fase di arrangiamento, difatti, è sempre la più lunga durante la composizione di un brano.
SD: Quale background musicale hanno i musicisti all’interno degli Animals At The End? Quanto queste diverse anime hanno contribuito a creare l’identità musicale della band?
AATE: Al momento sono l’unico compositore della band e quello che potete sentire in ‘Jayus’ sono influenze che vengono sia dal mio passato remoto (Nirvana, Sepultura, Poison The Well, NOFX) che da un passato più recente (Mogwai, Russian Circles, Alcest, Hammock) e tutti e sei i brani erano già in fase di arrangiamento quando ho proposto il progetto agli altri ragazzi.
SD: Il vostro sound è circoscritto all’interno di specifiche coordinate. Quali sono le band che secondo voi possono fungere da riferimento per comprendere cosa ci si può aspettare nell’ascoltare ‘Jayus’?
AATE: Se dovessi provare a descrivere ‘Jayus’ usando solo nomi di altre band forse direi un mix di If These Trees Could Talk, Seas Of Years, Lost In Kiev e Tides From Nebula, senza avere la presunzione di paragonarmi a loro.
SD: Quali sono i progetti musicali italiani che più trovate interessanti? In ogni genere musicale, non solo nel vostro e affini.
AATE: Sul nostro genere sicuramente The Chasing Monster, Il Giardino Degli Specchi e Talos. Al di fuori di questo Godblesscomputers, Massimo Volume e Mario Kunst.
SD: Domanda per i “Gear Nerd”: cosa non può mancare nelle vostre pedaliere? Quali sono le vostre chitarre e amplificatori di riferimento per creare il sound degli Animals At The End?
AATE: Sperimentando, negli anni, ho capito che basta una chitarra con doppio humbucker, non sono un fanatico di un marchio in particolare e ‘Jayus’ è stato registrato con una Serie T Panico (liutaio di Ravenna davvero bravo), una RD custom fatta interamente a mano da un amico ed una Dean Vendetta. Personalmente non credo sia necessario spendere duemila euro per avere uno strumento che suona bene. Qui i puristi dell’analogico storceranno il naso, ma per quanto riguarda i pedali siamo passati da avere pedaliere 50×80 piene di pedali analogici a 3 sistemi digitali Line6 e non tornerei mai indietro, sia per peso, costi, qualità e praticità. Per l’EP abbiamo usato un compressore valvolare Mark Bass, un Bass Over Drive della Boss e un BigMuff dentro ad un Ampeg SVT3 con 4×10 più 1×15 per il basso e per chitarra una ENGL Ritchie Blackmore e una HiWatt per i distorti, MEA Omega One e un Fender Twin Reverb per i puliti con davanti un overdrive KOR Star69 e un HX Effects Line6 per tutti gli effetti.
SD: Quali sono le prospettive, una volta passato questo periodo difficile per tutti, musicisti inclusi?
AATE: Visto che i live al momento sono “off limits” stiamo già lavorando al primo full length col quale cercheremo un etichetta, ma sicuramente appena si sblocca la situazione faremo il nostro debutto anche dal vivo. Le prospettive sono incerte, ma cercheremo di tirare fuori il meglio e di condividere la nostra musica il più possibile.
Tracklist:
Come Back America (4:03)
Onsra (4:27)
Ilua (7:04)
Canarie (5:48)
Verloren (4:29)
Manjuli (4:23)
Intervista di Michael Simeon in collaborazione con Gab di Epidemic Records.
Marco Palumbo-Rodrigues interview
February 25, 2021 | Salad DaysUn’etichetta, No Fronts Teeth Records, che naviga intorno alle 260 uscite. Un numero imprecisato di gruppi propri con cui si muove tra punk, rock’n’roll, new wave e tutte le relative ramificazioni.
Un nuovissimo libro di illustrazioni pronto per la stampa. Benvenuti nel mondo iperattivo – e spiccatamente do it yourself – di Marco Palumbo-Rodrigues, inglese con origini italiane, che negli ultimi 12 mesi mi ha folgorato con un trittico di band, La Rabbia, Sanguisuga e Zanzara, in cui fa praticamente tutto e lo fa terribilmente bene. Non sapendo da dove iniziare, siamo partiti dalle basi.
SD: Marco, in quanti dischi hai cantato o suonato negli ultimi due anni?
MPR: Non sono sicuro di riuscire a ricordarlo! Gli ultimi due anni significano il primo 7” dei Vacuum, l’Lp ‘Gli Occhi Dello Stato’ come Zanzara, ‘The Perfect Candidate’ dei Miscalculations, tre dischi dei La Rabbia, ‘Dressed To Die’ dei Cold Callers, l’ Lp dei Telegenic Pleasure, quello dei Sanguisuga e qualche pezzo per delle compilation con Gaggers, Stalin Video, Disco Lepers, The Exit, Saccharine Souvenirs e Caged Animal. Direi una decina di titoli ma potrei scordarmene qualcuno!
SD: Significa parecchie canzoni e moltissime parole. Come decidi dove andrà a finire una buona melodia o un buon coro? Come fai a scrivere tutti quei testi?
MPR: Devo entrare nella giusta mentalità a seconda della band per cui sto scrivendo. I testi dei Miscalculations, per esempio, sono i più celebrali, tendenzialmente parlano di psicologia, architettura, arte e scienza mentre quelli dei La Rabbia sono più orientati alla politica. Le parole di The Exit e Caged Animal hanno un punto di vista psicologico ed esistenziale, quelle di Gaggers e Disco Lepers sono per lo più divertimento, un’evasione direi. Di solito inizio col titolo, trovo un ritornello e lì capisco in che direzione andrà il pezzo ma ho sempre un’idea chiara di cosa parlerà la canzone quando inizio coi testi.
SD: Parliamo delle band dove canti in italiano. Hanno tutte dei nomi fantastici che starebbero bene su una backpatch, hanno tutte radici punk rock ma sviluppano caratteristiche proprie con risultati sempre efficaci. Ricordi ancora a cosa pensavi nel metterli in piedi?
MPR: Canto in italiano da diversi anni ormai, sin da una delle mie prime band di inizio anni 2000, i Blacklist Brigade. Con loro ho fatto un paio di pezzi in italiano e abbiamo anche scritto una versione bilingue del secondo disco ma ci siamo sciolti prima che uscisse l’edizione in italiano. Poi mi ci sono rimesso coi La Rabbia ma sono Sanguisuga e Zanzara i primi progetti interamente in quella lingua. Avevo delle idee per quelle band ancor prima di scrivere pezzi e testi. Sanguisuga è una band straight-up punk con suoni anni ’70 e ’80, Zanzara ha uno stile più streetpunk/Oi! con un’impostazione lirica diversa e un cantato molto più ruvido, mentre i testi sono piuttosto simili e guardano principalmente alla divisione tra stato e società.
SD: Ti accorgi se le band in cui canti in italiano ricevono un’attenzione diversa da quelle anglofone?
MPR: Mi sembra che alla gente piacciano parecchio! Spesso è difficile capire se alle persone interesserà una band che canta in una lingua che non possono capire, ma l’accoglienza è stata ottima. I dischi han venduto davvero bene, personalmente sono un grosso fan delle band punk che cantano nella loro lingua natia, alcuni dei miei gruppi preferiti sono scandinavi, brasiliani, spagnoli e giapponesi e quindi sono davvero felice di poter registrare in italiano, che poi è la mia seconda lingua. Sono piuttosto fluente grazie ai miei genitori che sono entrambi italiani.
SD: Da quel che so la maggior parte di queste band sono progetti da studio, non che il 2020 ti abbia permesso di fare diversamente. E’ un’impressione corretta?
MPR: E’ vero, essendo coinvolto in così tanti progetti contemporaneamente riesco a suonare dal vivo solo con una band alla volta. In alcuni casi, come i Telegenic Pleasure ad esempio, gli altri membri vivono in Canada, quelli degli Stalin Video stanno in South Carolina e al momento lavoro anche a un paio di altri progetti, gli Zuletzt con dei tizi di Monaco e gli Iris Paralysis con un amico di Achen. Non significa che queste band non suoneranno mai dal vivo, solo è complicato organizzarsi!
SD: Immagino sia a causa dei testi in italiano e di una certa impostazione dei pezzi, ma quando ascolto alcune delle tue band penso spesso agli Smart Cops, è un gruppo che conosci?
MPR: Sì! Adoro gli Smart Cops! Gran gruppo con una bella immagine!
SD: Ti occupi spesso delle grafiche e per quanto parlare di un’estetica punk significa tutto e niente, mi pare che i tuoi lavori cadano in quell’ambito. Se condividi questa nozione, quali sono i migliori esempi che trovi tra i tuoi dischi?
MPR: Sì, faccio la maggior parte delle copertine di No Front Teeth e praticamente tutte quelle delle mie band. Tra queste sono molto soddisfatto della copertina del Lp dei Zanzara, mi piace parecchio. Ho un debole anche per ‘Covering Lies’ dei Cold Callers che è una fotografia attentamente programmata in una cabina telefonica di Londra che abbiamo cercato a lungo di modo che mia moglie potesse essere alla finestra vicina. Mi piace davvero il risultato. Ci sono alcune copertine NFT che trovo ottime, quella a raggi X degli Sharp Objects, i collage fatti a mano degli Scraps, le copertine a taglio laser di Modern Action, Paper Bags, Strap Straps e Exit. La prossima settimana faremo un singolo dei Dead Meat con copertine di vera pelle, tutte di colore diverso e grafica sprayata. Mi piace parecchio quello che abbiamo fatto con NFT, per me l’estetica è sempre stata importante quanto la musica.
SD: Copio la prima domanda e ti chiedo quanti dischi hai invece pubblicato con No Front Teeth negli ultimi due anni?
MPR: Una quarantina, divisi equamente tra Lp e singoli.
SD: Nei prossimi mesi dovreste anche arrivare alle 300 uscite, sono sicuro che sai già come celebrare il traguardo e altrettanto sicuro che non me lo dirai. Sarà una cosa epica?
MPR: Penso che ci arriveremo nel 2022 ma non abbiamo ancora alcun piano! Però questo è il ventesimo compleanno di NFT, abbiamo iniziato nel 2000 come fanzine e solo l’anno dopo come label, quindi siamo a vent’anni e non sappiamo come celebrare neppure questo. Mi piacerebbe fare una raccolta in vinile che finora non abbiamo mai fatto, un paio di anni fa abbiamo coprodotto la tribute compilation a Peter P.Trash con FDH Records e Rockstar Records (‘Trash On!’, sei Lp, 104 gruppi, nda) ma era una cosa un po’ diversa con gruppi legati a P.Trash Records. Abbiamo fatto parecchie raccolte su cd alcuni anni fa e mi piaceva farle, sarebbe bello riprovarci con un vinile, meglio doppio.
SD: Hai spesso menzionato Beer City e Hostage come ispirazione per NFT, dopo 20 anni qualcuno è venuto a dirti quanto la tua label sia stata importante?
MPR: Non ancora! Quelle etichette sono state molto importanti e siamo sempre noi che dobbiamo ringraziale per aver buttato le fondamenta. Vedere quel che facevano, soprattutto con la pubblicazione dei 7”, ci ha molto spronati nel partire con NFT.
SD: So che concerti e tour non sono indispensabili affinché una band esca su NFT. Da una parte vedo che quest’impostazione ti permette di realizzare dischi di gruppi di ogni parte del mondo, dall’altra sono tra quelli che valuta il disco come metà dell’intera esperienza. Personalmente che valore dai alla musica registrata e a quella live?
MPR: Amo vedere le band dal vivo, vado a un sacco di concerti, ma niente può battere un disco. Non ha alcuna importanza se una band su NFT suonerà mai dal vivo, se mi piace la musica voglio pubblicarla. Sono sempre entusiasta di presentare un gruppo sconosciuto al resto del mondo e permettere che la loro musica viaggi più di quanto han fatto loro stessi, è quella la magia del disco! E’ molto semplice spedire un Lp da Londra al Giappone, Australia, Indonesia, Brasile ma non è altrettanto facile organizzare un tour da quelle parti. Poi ti ripeto, adoro andare ai concerti, le due cose vanno mano nella mano ma alla fine sceglierei sempre il disco registrato, che inoltre dura per sempre, più di quanto facciano le band in molti casi. Posso aver perso alcuni gruppi perché ero troppo giovane ma avrò sempre la loro musica.
SD: NFT ha una minima esposizione online, esiste un sito ma non un webshop, le band hanno i loro bandcamp ma poco altro. Qual è la tua posizione?
MPR: Non siamo mai coinvolti nella parte digitale delle nostre uscite, lasciamo che se ne occupino le band perché possano guadagnare dai loro download. Noi facciamo strettamente il prodotto fisico, i dischi sono disponibili sul sito ma le persone devono scriverci per ordinarli, ci sono sempre troppe varianti per aggiornare facilmente gli stock. Ci abbiamo provato, sia con il webshop che con la distribuzione, ma era davvero dispendioso farlo bene e siamo tornati a occuparci solo dell’etichetta.
SD: Passiamo a La Peste, un bellissimo libro che stai facendo con Jorden Haley. L’artwork che stai per pubblicare – col nome Vacant State – sembra diverso da quel che hai mostrato finora, è qualcosa di nuovo anche per te?
MPR: Dipingo e disegno da quando ero davvero piccolo, su La Peste ci sono dei disegni a inchiostro e penna nera che sto facendo da circa due anni. Sono diventato amico di Jorden e abbiamo deciso di fare un libro insieme, abbiamo un’estetica molto simile, è decisamente uno stile diverso da quello che la gente ha visto nelle mie copertine ma è comunque qualcosa che faccio da tempo.
SD: Il libro è stato finanziato tramite una campagna Kickstarter e mi pare che la quantità di materiale che pubblichi e realizzi si presti bene a queste cose, anche a Patreon. Che relazione hai con queste piattaforme?
MPR: Personalmente è la prima volta che faccio qualcosa del genere, mentre Jorden l’aveva già usato ed era contento di rifarlo. Pubblicare un libro è molto più costoso che stampare un disco, è stata un’esperienza interessante e sono sicuro che la rifarò, forse anche con NFT.
SD: Come se tutto questo non fosse abbastanza hai pure tre figli. Stanno diventando bravi ad assemblare dischi?
MPR: Il più vecchio che ha quasi 15 anni mi aiuta regolarmente, e stai sicuro che devo pagarlo o comprargli qualcosa ma sta diventando bravo. Potrei mettere al lavoro anche i più piccoli!
(Intervista di Marco Capelli x Salad Days Mag – All Rights Reserved)
J.S.P. Crew interview
January 26, 2021 | Salad DaysIncontriamo la J.S.P. Crew a seguito di ‘Lotto Con Me Stesso’. Una di quelle uscite che mi ha riconciliato con il mondo dell’Hip Hop, quello “della vecchia”.
Conosciuti tramite Aldebaran Records, spulciando il loro catalogo quando ho comprato l’ultimo Casino Royale, eccoli qui: straight outta Roma Sud!
SD: Ho ascoltato il disco. Mi è piaciuto molto. Lo trovo molto coraggioso, quasi “estremo”. Poco radiofonico/pochi hook… questo perché è (secondo me) più jazz che rap. Siete d’accordo?
JSP: Grazie. Siamo cresciuti molto ‘ar core, come si dice a Roma. La nostra parte hardcore, grezza, o come la si voglia chiamare, è il nostro più grande punto di forza. Per quanto riguarda il genere musicale del disco, su questo punto abbiamo davvero delle grosse difficoltà ad inquadrarlo in un solo sottogenere. Sicuramente in alcune canzoni abbiamo preferito ritornelli strumentali o bridge suonati al classico ritornello cantato pop, ma con un attento ascolto del disco ci si può imbattere in pezzi più radio frendly, come ‘Le Cose Che Non Dici’, con Folcast e Tahnee Rodriguez.
SD:… chi ha avuto l’idea? Parlo della storia del gruppo… e della storia dell’album. Chi ha convinto chi? SillaMandria vs il gruppo? O il gruppo vs SillaMandria?
JSP: Siamo amici da sempre. Il gruppo, come forse abbiamo già detto prima, inizialmente aveva al basso un altro nostro amico e collega, Daniele Folcarelli, con cui abbiamo composto i primi tre pezzi. I J.S.P. sarebbero potuti finire lì, ma dopo 2 mesi dall’uscita di Daniele dal gruppo, ci è arrivata la chiamata del bassista (Luigi Russo) che aveva già preparato 6 o 7 idee pensando proprio a noi. E proprio da lì è nata poi l’idea del disco: ‘Lotto Con Me Stesso’. Sì, diciamo che veniamo tutti da background musicali diversi, ma abbiamo sempre avuto gli stessi posti di appartenenza. I processi di lavorazione dei nostri pezzi sono stati un “tutti insieme a tutti” e non un “tutti contro tutti” e sono sempre stati lavorati ad otto mani, partendo da un’idea dei singoli.
SD: Primo elemento “estremo” che mi ha colpito: la sostituzione dei beats e della produzione “classica” con gli strumenti. Scelta che in un certo senso “ridimensiona” il ruolo dei vari Don Joe di turno. La cosa, dal punto di vista di un esterno come me, potrebbe essere anche buona (certa gente, a mio modo di vedere, gode di una fama assolutamente non meritata). Ma dal punto di vista del vostro ambiente, direi sia una scelta molto coraggiosa. Anche perché di Roma è il producer per eccellenza, Ice One. Mi dite un po’ cosa ne pensate?
JSP: Il nostro cantante (Silla) è nato e cresciuto ascoltando rap Hip Hop e qualsiasi genere di musica prodotta con un campionatore e per forza di cose ci ha trasmesso la sua passione. Questo per dire che non abbiamo alcun problema a mischiare la musica campionata con la musica suonata o la musica suonata con l’aggiunta di sequenze, sample o batterie elettroniche. A noi piace la musica che ci mette il brivido sulla pelle, come è fatta è secondario. Proprio per questo motivo il remix di Ice One per noi è proprio la ciliegina sulla torta.
SD: Legato a questo tema: vi trovate nella vostra scena? Vi rivolgete al mondo dell’Hip Hop? O al mondo del jazz… o?
JSP: Ci rivolgiamo a tutti quelli che vogliono donare un po’ del loro tempo per ascoltare il disco. Non amiamo le divisioni, soprattutto in questo periodo.
SD: BTW, quando si parla di scena, quale è il contesto oggi in cui vi muovete a Roma? Quali sono i punti di riferimento (parlo di luoghi, e persone/colleghi)?
JSP: Purtroppo in questo momento ci muoviamo poco, causa Covid, ma siamo sempre in contatto con i nostri colleghi. Siamo tutti di Roma Sud, quindi per lo più bazzichiamo sempre le stesse zone. Ma potendo comunicare a distanza, stiamo cercando di lavorare all’uscita del nostro secondo video e alla prossima sorpresa di Natale. Finché si può, continueremo a beccarci al pub La Tana a Magliana e ad altri pub della periferia di Roma Sud, per prendere una birra insieme alle solite faccione.
SD: Secondo elemento “estremo”. Suonare invece che avere un dj o un beatmaker dietro. Altra scelta “rischiosissima”. Ho visto Ghemon dal vivo: la band che l’accompagnava secondo me non era all’altezza, sembrava la band di una festa del liceo. Su disco la cosa può passare in secondo piano… ma dal vivo non c’è storia. Ci avete pensato? Anche perché il mondo del jazz, visto da fuori, è un mondo abbastanza incomprensibile… quindi alla fine sono l’impatto e la personalità quello che conterà/quello che rimarrà quando vi vedrò da vivo.
JSP: Guarda, il nostro punto di forza è stato sempre suonare live. Quindi, dopo aver superato la prova di registrare il disco, non vediamo l’ora di poter suonare l’album live e di sfogare tutta la rabbia e il rammarico provato in questo periodo. Dopo di che, i giudizi li lasciamo sempre all’ascoltatore.
SD: Mi viene in mente la join venture tra Kaos e La Batteria. Una bomba. Ma stiamo parlando appunto di Kaos e La Batteria. Kaos è più vecchio di me… e quelli della Batteria direi non gente di primo pelo…
JSP: Non abbiamo la presunzione di associare un determinato genere musicale a delle determinate età anagrafiche, crediamo nella diversità e nelle scelte. Vogliamo lasciare il massimo della libertà di giudizio all’ascoltatore, come fosse la reazione in seguito ad un’esperienza estrema, tipo buttarsi col paracadute, o il bungee jumping. Sappiamo benissimo che il disco non è per tutti, ma come possiamo sapere a chi è diretto? Noi offriamo un’esperienza, non facciamo selezione all’entrata. Come si sarà capito, abbiamo un profondo rispetto per il mondo degli ascoltatori musicali, poiché ne facciamo parte in primis noi stessi. Non diamo invece molta importanza alla loro età.
SD: Terzo elemento “estremo”. L’approccio è molto più jazz che rap (anche qui, mio modo di vedere). Mi spiego. Pochi hook. Molti tempi “non ballabili”… molti beats “dispari”… momenti quasi da jam, che personalmente mi fanno godere… ma appunto ho 50 anni; scelta coraggiosissima. Cosa ne pensate?
JSP: Che siamo molto contenti che ti siano piaciuti! Escono fuori da quella parte grezza di cui parlavamo prima, cui piace molto accettare sfide anche a livello ritmico. Se vogliamo parlare di rappare sopra quei beats dispari, vi facciamo immaginare il grado di difficoltà affrontato dal nostro SillaMandria!
SD: Per andare più in profondo. Il jazz qui da noi è comunque associato a “vecchio e ricco” (vedi il Blue Note qui a Milano)… invece sappiamo tutti che non è così. Perché? Perché ha perso la sua carica di rottura? Da quando è entrato nei teatri? Ho sentito un’intervista a Rava… che ricordava i tempi del Lower East Side a NY… sembrava si sentir parlare i Cro Mags… il jazz ha fatto la fine del Lower East Side? Gentrificato?
JSP: Come prima cosa, “Bomba i Cro Mags!” (dice SillaMandria). Riguardo la dicotomia tra vecchio e nuovo pensiamo di esserci già spiegati, per quanto riguarda il ricco… noi soldi e paura non ne abbiamo mai avuti. Per questo la scelta coraggiosa, forse? Scherzi a parte, a prescindere dalla scena jazz, il suono analogico sta tornando (è tornato) nella scena musicale sia americana che europea e attinge a qualsiasi età e a qualsiasi sottogenere, passando da Kamasi Washington ed Anderson Paak alla Griselda.
SD: Quarto elemento “estremo”: i vostri punti di riferimento. Per confrontarvi con qualcuno, ho tirato fuori ‘Game Theory’ dei Roots, (non gli US3, per intenderci). Un signor album, il loro più cupo e politico. Prima domanda… facile. Ho fatto bene? O avreste scelto qualcosa d’altro? Poi… pure rispetto a loro, che non sono certo dei faciloni, (alcuni) vostri brani sono molto più complessi. Per esempio… mica facile rappare su del jazz! Da loro Questlove fa un “lavorone” (cazzo, Questlove), ma comunque sono sempre molto “dritti”: voi spesso siete un po’ “storti” (nel bene). Mi chiedevo se tecnicamente avete avuto delle difficoltà nel processo di assemblaggio dei pezzi… e se sì dove e quando?
JSP: Assolutamente sì. Rappare su quei beats non è per tutti i rapper. E molto probabilmente SillaMandria non è soltanto un rapper. Comunque stravediamo per i Roots! Quindi hai scelto benissimo! Ma noi non siamo nati a Philadelphia, siamo nati a Roma da padri e madri del Sud Italia. Non potremo mai suonare uguali ai The Roots, né a nessun altro gruppo americano. E per noi questo è un sollievo!
SD: Sempre riguardo ai punti di riferimento: Pino Daniele (J.S.P. sta per… indovinate un po’)!!?? Siete veramente matti! La cosa (apparentemente, intendiamoci) più lontana dal pubblico giovane e Hip Hop. Anche questo… tutto da spiegare. Nell’ottica del “digger” fanatico quale io sono, se avete dischi o cose che mi volete dire per arricchire il vostro ritratto, fate pure! Sappiate che quando io vado a casa d’altri mi faccio un primo parere a seconda dello stereo e dei dischi che girano… se ci sono, ovvio.
JSP: Come avrai capito abbiamo parenti campani, siciliani e calabresi. Siamo molto legati ai Funky Pushertz e a tutta la scena campana. Abbiamo ascoltato con molto interesse l’album dei Nu Guinea ‘Nuova Napoli’ e anche quello dei Dumbo Station, ‘Tirana Cafè’. I primi dischi di Pino Daniele per noi sono come Maradona. Ci hanno formato a livello identitario, oltre che a livello musicale. Detto ciò, noi ascoltiamo praticamente di tutto e ti consigliamo Folcast, Funky Pushertz, Moda Loda Broda, Canarie, Pink Puffers, tra le nostre conoscenze territoriali/dirette. Per quanto riguarda il nostro background musicale, sarebbe così lunga che ci servirebbe una seconda intervista (forse) solo per quello.
SD: Quinto elemento “estremo”. I testi. Decisamente “old style”… qui il fatto che abbiate vicino i Colle Der Fomento, mannaggia a voi… noi abbiamo il Club Dogo… A parte gli scherzi… rime un po’ fuori dal solito schema “strada/gangsta” che qui a Nord ha molta presa sui regaz.
JSP: Il nostro cantante è un po’ atipico. Il suo processo di scrittura è legato in modo unilaterale al suo carattere. Non ha uno schema, scrive per urgenza. I temi trattati possono essere diversi, ma solitamente escono fuori dal nostro quotidiano e dalle esperienze periferiche di tutti i giorni. Per noi comunque, “strada” vuol dire strada da percorrere, e “gangsta” che è? ‘Na malattia nuova? Er nome del nuovo vaccino?
SD: Sesto elemento “estremo”, i featuring. Non sono tanti rispetto ad altri lavori… ed ancora una volta c’è (secondo me) più jazz che rap. Mi viene da dire “pochi ma buoni”… è anche vero che il grosso delle vendite e della rete di vostri “colleghi” è fatto proprio sui featuring… quindi ancora una volta (secondo me) una scelta abbastanza “estrema”. Tra l’altro le chitarre di Reali, a mio modesto parere (questo se volete ce lo teniamo per noi), alla fine mi risultano un filo troppo “metal”… un po’ “forzate” nel contesto. Se volete vi sfido anche se questo punto, se no sembra che vi stia facendo la marketta… e se mi volete convincere del contrario sono qui…
JSP: Su questo facciamo una sfida noi a te: trovaci un chitarrista che, dopo averlo concepito, riesca a rieseguire un solo di chitarra come quello di Diego Reali, in quel modo, con quelle dinamiche e in un paio di take. Qualora tu lo trovassi, per favore chiamaci che smettiamo di suonare! Per quanto riguarda le featuring le nostre scelte sono state molto mirate, perché avevamo le idee stramaledettamente chiare.
SD: Conclusioni. Salad Days è molto dentro alla streetlife culture/skateboarding/graffiti etc. etc. Se volete arricchire il tutto, e scopriamo pure che siete skater o writer… please let us know!
JSP: Logicamente abbiamo amici writer di cui, per motivi logici, non facciamo il nome, ma che salutiamo con affetto! Ci teniamo in particolare a salutare il nostro grafico Dario Pallante, che non smette mai di sorprenderci.
SD: BTW: il logo. Dove/come/quando?
JSP: Il nostro grafico è da sempre Dario… per noi ormai è una garanzia. Ha curato e continua a curare le grafiche (pazzesche) di SillaMandria e di altri gruppi in cui alcuni membri J.S.P. hanno orbitato. E’ una collaborazione decennale a cui non siamo interessati dare un termine, anzi! Stiamo lavorando con lui per evolverci allo step successivo, dalla grafica 2D alle animazioni e a progetti grafici più innovativi. L’idea del logo J.S.P. (il cane che si morde la coda) è nata in sala prove, tra noi musicisti: ci sembrava l’immagine perfetta di ‘Lotto Con Me Stesso’. E’ bastato un messaggio e il buon Dario ci ha reso (come sempre) soddisfatti.
SD: Conclusioni II. Cosa state facendo… e cosa pensate di fare (musicalmente parlando), incrociando le dita, nel 2021?
JSP: Stiamo preparando il nostro secondo video ufficiale e una Live Session da poter vedere in Live Streaming o su Youtube, soprattutto per poter presentare i nostri pezzi dal vivo, anche se in maniera virtuale. Infine, ti diciamo che abbiamo tante sorprese in serbo, ma che per scaramanzia, da buoni terroni, teniamo ancora nel cassetto.
SD: BUON TUTTO!
JSP: Ciao, grazie per l’intervista! Baci e abbracci dalla J.S.P. Crew.
(Txt by Francesco Mazza x Salad Days Mag – All Rights Reserved)
Real Swinger interview
January 5, 2021 | Salad DaysSe mi parlate di punk rock veloce, con i cori nel DNA e non prettamente ramonesiano, passerò la vita a dirvi di ascoltare i Real Swinger, originariamente di Napoli e poi di base a Roma, che nel 1997 esordivano con un self titled F A N T A S T I C O. Caso più unico che raro, quel titolo usciva direttamente negli Stati Uniti per la V.M.L. di Joey Vindictive che come prima cosa prese la band e le fece fare un paio di settimane di tour oltreoceano. I Real Swinger hanno continuato a esistere per circa altri due decenni e tre Lp, fino alla loro recente trasformazione in No Spoiler, mantenendo Marco (chitarrista e cantante) come punto focale. Dopo 23 anni, reclutati Marco Montesano alla batteria e Tommaso Tonioni al basso (insieme nei Killtime), Marco ha registrato di nuovo il proprio esordio. Sfizio? Incoscienza? Non importa. Il disco è bellissimo ancora adesso, anche con la track list rivoluzionata e un approccio più maturo alla registrazione. Della versione originale, Marco dice “…avevo in mente qualcosa che come impatto sonoro fosse a metà tra ‘New Day Rising’ degli Husker Du e ‘Destroy-Oh-Boy’ dei New Bomb Turks (come resa, non che i nostri pezzi fossero all’altezza di quei dischi)”, io invece vi dico che il risultato si assesta tra Descendents e le migliori cose Lookout (dai primi Green Day alle produzioni di metà anni 90) e che la loro accoppiata con gli Scared Of Chaka in alcune date del 1998 resta insuperata a distanza di tempo. Nove domande a Marco per raccontare passato, presente e futuro di Real Swinger e No Spolier.
SD: Nel 1997 tu e i Real Swinger cenate con Ben Weasel a casa sua, subito prima del vostro tour statunitense con gli Squirtgun. Stando al vostro tour report su Bassa Fedeltà, Ben Weasel, commentando un disco italiano nella sua collezione, afferma “l’ho sentito una volta ma fa schifo”. Quel titolo è rimasto secretato per 23 anni. Sei pronto a dirci di chi era quel disco?
M: Si, direi che è venuto il momento di rimuovere gli omissis ma è necessaria una premessa: io ho incontrato Ben Weasel solo due volte. In quella occasione e quando siamo tornati a Chicago dopo un paio di giorni per fare il concerto, per cui non posso dire di conoscerlo, ma avendo letto le sue columns e poi i suoi libri (e libri di altri in cui si parla anche di lui) e aver parlato con persone che lo hanno incrociato/conosciuto mi sono fatto l’idea che spesso abbia un atteggiamento volutamente “provocatorio”, per spiazzare l’interlocutore. Dire delle cose per vedere l’effetto che fa. Creare l’anticlimax… lo shock value! Infatti, dopo quella sua risposta la conversazione cambiò repentinamente anche perché iniziò a frugare in uno scatolone per darci le magliette avanzate dal tour dei Riverdales e del tour cancellato degli Screeching Weasel per cui già non pensavo più al disco… che comunque era ‘Bar’ dei Derozer.
SD: ‘A Tape To America’ (che recita “got no clubs, got no scene, got no audience… so I’m sending a tape to America”) era una fedele rappresentazione della vostra vita in quel momento?
M: Molti dei testi del primo disco nascono da chiacchiere, elucubrazioni, analisi sociologiche senza basi teoriche e discettazioni musicali o potremmo definirli semplicemente deliri miei e di Paolo, il primo bassista e co-fondatore (e stratega cultural-attitudinale) del gruppo. Lui oltre alla passione per il punk era un fanatico del garage e del budget-rock, io invece avevo un retroterra più HC ma se ci guardavamo intorno c’erano solo le posse. Ma non una eh… novantanove!! Avevamo perso la sala prove perché la ragazza del chitarrista non voleva che lui perdesse tempo con noi, locali che facessero concerti interessanti erano praticamente inesistenti e anche quando iniziammo a fare noi delle serate non rientravamo nel punk genere Fat Wreck, Epitaph che un minimo di seguito ce l’aveva.
SD: L’uscita su una label statunitense, il tour appena menzionato, il registrare un disco in Indiana erano inusuali allora e anche oggi. Eravate lungimiranti nelle public relation o vi siete giocati la fortuna di una vita quell’anno?
M: È indubbio che siamo partiti col botto! Qualsiasi cosa dopo quei primi due anni sarebbe stata inferiore al confronto. Più che public relation, in quel periodo era normale mandare in giro demotape e li abbiamo mandati non solo in America, ma anche in Italia (Vacation House, McGuffin e altre che ora non ricordo). Joey Vindictive ci disse che per promuovere il disco sarebbe stato utile fare un tour. Nella sua ottica una cosa normale che qualsiasi gruppo in America faceva regolarmente, e mi diede il numero di Mass Giorgini (bassista degli Squirtgun, proprietario dei Sonic Iguana Studios a Lafayette, produttore di Rise Against, Alkaline Trio e molti altri – NDA). Mass da questo punto di vista fu impagabile, ci sentimmo praticamente una sola volta al telefono e poi si occupò di tutto mettendoci a disposizione il backline e la casa. Il fatto che sia legatissimo alle sue radici italiane ha chiaramente influito molto. Fossimo stati un gruppo spagnolo, magari le cose sarebbero andate in maniera diversa. Però devo dire che anche negli anni successivi mi sono capitate belle cose e non solo musicalmente!
SD: Cosa ascoltavate nel periodo di uscita del disco? In parallelo, questi gruppi/dischi ti sembra che siano invecchiati bene o male?
M: A questa domanda ammetto che non so risponderti. Da un lato molte delle cose che ascoltavo erano di anni precedenti, per cui già stagionate. Dall’altro, iniziando a prendere sempre dischi nuovi, rimaneva poco tempo per risentire i dischi degli anni precedenti. L’unica certezza è che pochissimi di quei gruppi esistono ancora!
SD: L’invecchiamento del vostro self titled invece l’hai abilmente schivato con questa riedizione. Come ti è venuto in mente di rifare (quasi) tutto da capo?
M: Ho voluto rifarlo da capo perché nella prima registrazione ci sono tanti errori, di impostazione principalmente, dovuti al fatto che sapevamo poco e niente di come tecnicamente si registra un disco e si lavora in sala. Facemmo tutto in pochissimo tempo suonando tutti i pezzi a una velocità pazzesca, ci sono dei passaggi in cui si sente che mi manca il fiato! Dal vivo suonavamo più veloce rispetto a quando facevamo i pezzi in sala prove. Ma in sala di registrazione li suonammo più veloci di come li suonavamo dal vivo! Insomma, a distanza di tempo, quelle canzoni meritavano una seconda possibilità.
SD: Fast forward al 2019 ed esce ‘Please!’ dei No Spoiler, diverso il nome, diverse le persone e diverso il suono. Mi rendo conto di non sapere come sia avvenuta la transizione da Real Swinger a No Spoiler. Riesci a riassumere questo decennio di stacco?
M: I Real Swinger hanno avuto due formazioni “storiche”. Quella dei primi due dischi con Walter e Luca a Napoli e quella con Stefano e Antonio a Roma con cui abbiamo fatto i due dischi successivi. A queste ne devi aggiungere altre ancora, di durata più o meno breve. Dato che mi piace l’idea di gruppo e non quella di avere solo delle persone che suonino con me, quando i cambi di line up hanno iniziato a essere tanti ho iniziato a proporre di cambiare il nome al gruppo. Con l’attuale formazione abbiamo iniziato a suonare nel 2017 facendo concerti sempre a nome Real Swinger, e quando abbiamo iniziato a registrare il disco pensavamo di usare ancora quel nome. Poi mentre eravamo già alla fine del missaggio ragionando sul titolo da dare al disco, abbiamo trovato anche il nuovo nome del gruppo. L’approccio non è cambiato molto. Il suono sì, ma solo perché il disco è stato registrato meglio di qualsiasi cosa io avessi fatto prima e su alcuni pezzi ci siamo anche scatenati con gli arrangiamenti e su questo aspetto sono stati fondamentali Sterbus e Gianka sia nelle idee proposte che nel riuscire poi a concretizzarle! Nel disco precedente c’erano un pezzo country, uno strumentale, un pezzo power pop, uno swingato, una ballad, un pezzo garage. In quello dei No Spoiler c’è un pezzo glam, uno bubblegum, uno alla Phil Spector, uno più hard rock. Alla fine, ci interessa più fare buone canzoni che canzoni dello stesso genere.
SD: Parlando dei No Spoiler e del loro Lp in uno scambio di qualche mese fa abbiamo menzionato i Giuda, Marc Bolan, i Cramps e il doo wop. Aggiungo “punk rock” e la recensione è fatta o ti potrebbe piacere sottolineare delle altre sfumature di questo gruppo?
M: Più che di gruppi, in molti casi dovrei citarti singole canzoni. Ti faccio un esempio: Nirvana e Joy Division. Tu potresti pensare che hanno in comune il suicidio del cantante ma ci sono due loro canzoni, nello specifico ‘Mr Moustache’ e ‘Digital’ che si basano su un riff di chitarra di 3 e 4 note molto semplici ma di impatto. Suonando quel riff non riuscivo mai a cantarci sopra e in realtà non lo fanno neanche loro. Curtis non suona la chitarra e Kobain nella strofa non suona quel riff che viene portato avanti solo da Novoselic. Io mi sono inventato una versione dove riuscivo a cantarci ed è venuta fuori ‘Closer’. Aggiungici che il testo si ispira a quelli del primo disco dei Knack che grondano letteralmente sesso e hai la genesi del pezzo. Potrei fare la stessa analisi con tutti i pezzi del disco ma temo che annoierei chi ci legge. Poi, c’è sempre un gap tra quello che hai in mente tu che scrivi e quello che viene percepito da chi ascolta, per cui le mie sfumature potrebbero essere completamente diverse dalle percezioni degli altri. Il pezzo alla Phil Spector che ti citavo prima…, ci ha scritto un tipo a cui la canzone piaceva moltissimo perché gli ricordava gli Status Quo che sono il suo gruppo preferito. Magari avevano canzoni di quel tipo ma non sono un gruppo che posso dire di conoscere o che mi abbia influenzato, però lui ce li vedeva… Seguirà dibattito “Le 50 Sfumature Dei No Spoiler Vs Public Perception”.
SD: ‘Please!’ contiene anche quella che se ben ricordo è la tua prima canzone in italiano. Al di là che l’anno in corso non ti ha dato molte occasioni di cantarla dal vivo, sai già se ti farà piacere ripetere l’esperimento?
M: Si, è la prima canzone con testo in italiano per un mio disco. Nasce dopo aver sentito “Il sorprendente album d’esordio de I Cani” che secondo me è uno dei dischi più importanti usciti in Italia in questo decennio per la lucidità con la quale viene descritta una generazione di 16-20enni. Io ho un orizzonte di frequentazioni e conoscenze anagraficamente diverso per cui le abitudini/manie/personaggi di cui parlo sono diverse e il consiglio del ritornello “invoca satana” è chiaramente una iperbole grottesca. Cioè se sei passato dalla cristallo terapia all’analisi collettiva e poi da Osho a influencer su Instagram prova anche ad invocare il maligno, magari trovi pace. Comunque, considerato che mi hai confessato di leggere anche tu assiduamente Brezsny (mi piace giustificare gli alti e bassi della vita con Brezsny! – NDA), qualcosa di vero nel testo c’è! Per il futuro non so. Per ora le prime 4 canzoni per il prossimo disco sono in inglese.
SD: Solo se non hai risposto alla primissima domanda, almeno un episodio inedito di quel tour con gli Squirtgun possiamo sdoganarlo? Ormai solo la presenza di figli (che non hai) possono trattenerti dal raccontare tutto!
M: Potrei anche averceli dei figli, magari proprio grazie a qualche episodio inedito del tour!!! Mater semper certa est…
Double Nickels interview
December 28, 2020 | Salad DaysC’è un nuovo progetto editoriale sulla piazza, si chiama Double Nickels e le persone da ringraziare sono Chiara e Matteo, che potreste riconoscere rispettivamente per essere la rumorosissima bassista dei Lleroy e per il defunto blog Bastonate. La prima uscita è ‘Memorial Device’ di David Keenan, tradotto in italiano a tre anni dalla sua pubblicazione, un campionario di peculiari personaggi che anima la scena post-punk di Airdrie, poco distante da Glasgow, nei primi anni ‘80. Cosey Fan Tutti dei Throbbing Gristle, una che due cose strane le ha fatte, dice “Non ho mai letto un libro del genere”, datele retta e magari la penserete come Kim Gordon quando dichiara “voglio vivere dentro a quel libro”. Il futuro è già scritto e Double Nickels proseguirà con Michael Gira (Swans), Eugene Robinson (Oxbow) e Ian Svenonius (Nations Of Ulysses prima di qualsiasi altra cosa abbia fatto), a rinsaldare il legame con i musicisti underground che non si limitano a suonare.
SD: Double Nickels pubblicherà libri scritti da musicisti che non significa necessariamente libri sulla musica. Da una parte significa un pubblico molto ampio, dall’altra si traduce in una nicchia ancor più complicata quasi come quella che si crearono i Minutemen, che citate nel nome di questa casa editrice. Spesso incompresi ma definiti geni e precursori dopo la loro fine, siete pronti a condividere con loro questa dimensione?
Matteo: La dimensione che condividiamo è fare le cose in un modo sostenibile dal punto di vista etico; in generale la storia dei Minutemen è per noi il modello a cui aspirare per quello che riguarda stare al mondo. Non entro nemmeno in territorio artistico/musicale, lì c’è solo da genuflettersi alla Wayne e Garth davanti a Alice Cooper, accettare il dono della bellezza e tacere. Per tutto il resto, restringere il campo è un modo per darsi una direzione ed essere facilmente riconoscibili dall’esterno, ma anche una questione di igiene mentale commisurata ai nostri mezzi.
SD: Raccontiamo un po’ ‘Memorial Device’, come l’avete conosciuto? A quale pagina tornereste subito per dirmi il vostro episodio preferito del libro?
Chiara: Il merito della scoperta di Keenan va ai suoi traduttori, Matteo Camporesi e Lorenzo Mari, sono stati loro a proporcelo. Incuriosita dal personaggio, estremamente prolifico (ex musicista, gestore di un’etichetta e di un negozio di dischi, critico musicale e infine scrittore), ho letto il suo primo libro e ho pensato che sarebbe stato un buon esordio per DN. ‘Memorial Device’ racconta la storia di una band mai esistita realmente, infatti la musica non è al centro della narrazione. Se il post-punk si può riassumere nell’esplosione del punk in tutte le direzioni espressive possibili, quella descritta nel libro è un’espressività talmente sincera e disinteressata da andare spesso incontro al fallimento e non sottrarre il fallimento allo sguardo della memoria. Uno dei miei capitoli preferiti è il quindicesimo, racconta del funerale di uno dei personaggi attraverso il ricordo di una sua conoscente. Per commemorarlo i suoi amici prendono l’iniziativa di stampare un disco con le sue ultime registrazioni, confezionando il packaging col materiale trovato nei suoi quaderni, selezionato rigorosamente senza nessun criterio. Persino la morte diventa uno stimolo per compiere l’ennesimo gesto artistico che non ha nessuna pretesa di essere tale.
SD:Quali sono stati i passaggi fondamentali per ultimare la vostra edizione? Per essere l’inizio di Double Nickels è stato un processo stimolante?
C: Abbiamo avuto un intero lockdown per sbizzarrirci sull’impaginazione e pensare alla copertina, su cui poi è finito uno scatto di Dino Ignani (da ‘Dark Portraits Rome 1982-1985’, uscito per Yardpress) più o meno contemporaneo alle vicende di cui tratta il romanzo. Dopodiché abbiamo scelto di stampare in una tipografia bolognese, per avere la possibilità di scegliere i materiali di persona e stabilire un contatto diretto con chi se ne sarebbe occupato. La parte in cui l’oggetto-libro prende forma è sicuramente la più divertente di tutto il processo, e per la prima uscita coincide col momento in cui si prendono decisioni di massima sull’identità del progetto, quindi gli stimoli abbondano.
SD: Salad Days nasce nel 2009, per anni mi sono occupato dei libri di stampo musicale (diciamo legati per lo più all’underground) e se inizialmente recuperavo liberamente titoli dal passato per riempire quella pagina di recensioni, col passare degli anni sembra sia difficile stare appresso alle nuove uscite. La mia impressione è che ci sia un’ondata generazionale più interessata all’argomento e che sia anche più facile gestire una pubblicazione. Mi dite qual è la vostra opinione?
M: L’ondata generazionale c’è sicuramente da parte dell’offerta: sono aumentate le pubblicazioni perché sono aumentate le persone che si prendono la briga di stare sul pezzo, recuperare e tradurre certi materiali. La banda larga ha aiutato: all’epoca di internet 1.0 la circolazione era più limitata, spesso ai limiti della carboneria, molti libri che hanno significato molto per me non sono mai arrivati in Italia. Sulla domanda è tutto da vedere: aprire/partire è sempre comunque la via di mezzo tra un atto di fede e saltare dal precipizio senza sapere quanto è lunga la corda, se c’è una corda.
SD: Essendo tu, Chiara, anche musicista, ti sei già resa conto di cosa musica ed editoria indipendente condividono nella parte distributiva?
C: In entrambi i casi la grande distribuzione è una risorsa solo per chi ragiona su numeri molto diversi dai nostri, che corrispondono a un altro approccio, altri mezzi e in parte anche a un altro pubblico. Nella musica lo scenario è abbastanza polarizzato, nel senso che chi si muove nel circuito dei piccoli club o dei centri sociali vende i dischi quasi esclusivamente ai concerti e ha poco o nessun interesse a piazzarli altrove. Per i libri il discorso è diverso, c’è una rete validissima di librerie indipendenti con cui i piccoli editori instaurano spesso rapporti diretti bypassando i distributori. È quello che abbiamo scelto di fare per il momento, nell’attesa di promuovere le uscite con un po’ di presentazioni in giro.
SD: Essere sommersa da manoscritti di autori sconosciuti è un’ambizione o una croce cui prepararsi?
M+C: È un problema che per ora non si pone; se arriveranno li leggeremo, siamo aperti a tutto quanto sia compatibile con la nostra sfera di interesse.
SD: Al di là dei titoli che pubblicherete, restando nell’ambito musicale, mi dite un paio di titoli che menzionate tra i vostri preferiti?
M: ‘Our Band Could Be Your Life’ di Michael Azerrad (‘American Indie’ nell’edizione italiana), ‘Please Kill Me’ di Legs McNeill/Gillian McCain, i capitoli sui Genesis, Whitney Houston e Huey Lewis And The News in ‘American Psycho’ di Bret Easton Ellis nella traduzione di Pier Francesco Paolini.
C: ‘Questa E’ La Mia Terra’ di Woody Guthrie, ‘Post Punk’ di Simon Reynolds e l’autobiografia dei Nofx.
SD: Per forza di cose devo chiederlo, riuscireste a pubblicare uno scritto che vi piace di un musicista che non sopportate?
M+C: Dipende, generalmente l’importante è il contenuto. Diciamo che avremmo problemi a pubblicare uno scritto che non ci piace di un musicista insopportabile.
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Frana x ‘Disastersss’ the full interview
December 18, 2020 | Salad DaysE’ venerdì 18 dicembre 2020 ed esce ‘Disastersss’, il secondo Lp dei Frana, che potete ascoltare e acquistare al link sottostante mentre scoprite riga dopo riga chi sono, dove suonavano e perché lo fanno.
Se vi piacciono i generi vi dico noise, post hardcore e punk rock, se vi piacciono i nomi mi gioco Drive Like Jehu, Metz e Shellac oltre a quelli che troverete menzionati nell’intervista. Rispondono al gran completo Luca (voce e chitarra), Francesco (basso), Matteo (chitarra) e Michele (batteria). Happy release day, a loro ma anche a voi perché è una fortuna che lo possiate finalmente ascoltare.
SD: Non conosco di persona Luca, il vostro cantante, ma ho scoperto di averlo incrociato nella città dove i Frana sono nati: 2011, concerto di Off! e Fucked Up a Monaco, l’ho incontrato casualmente per strada tramite un comune conoscente (ciao Nat!). In generale di quel posto ho dei buoni ricordi per quella e altre visite, ai Frana la nascita in terra tedesca ha lasciato qualche segno?
Luca: Sisisisisi, ricordo ricordo! Ero in bici sulla Lindwurmstrasse ed ecco che ti compare Nat dal nulla. L’abbiamo poi rivisto l’anno dopo, quando abbiamo invitato gli Infarto a suonare alla primissima data dei Frana al Kafe Marat, dove ho organizzato concerti per anni, assieme agli Storm{o}. La Germania ci ha visto nascere e ci ha visto muovere i primi passettini zoppi come Frana, lasciando ovviamente un segno nel nostro modo di fare le cose, più da un punto di vista attitudinale/organizzativo/paramilitare che musicale. Eravamo prima di tutto degli outsider, della città stessa e della scena di Monaco di Baviera, era tutto molto difficile per noi, dal trovare un batterista o una sala prove o cercare le date, questo ci ha fatto crescere la pelle spessa e ci ha abituato allo sbattimento continuo. Così come vedere tantiiiiiiissimi gruppi che si prendevano trooooppo sul serio ci ha obbligato a non farlo coi Frana.
Fra: A me la terra tedesca sembra molto più accogliente in retrospettiva. A Monaco di concerti fighi ne abbiamo davvero visti e suonati una valanga, non posso non citare il Kafe Kult che è un punto di riferimento indispensabile. E la scena locale, pur con molti limiti, è genuina. Le persone tendono a crederci per davvero, c’è decisamente meno cinismo e più candore che qui da noi… persone giovani e vecchie, da cui abbiamo ricevuto sempre tanto supporto e interesse, anche quando siano tornati a suonare l’anno scorso. Questa cosa un po’ il segno l’ha lasciato, tant’è che alla fine tra vari cambi di line-up e traslochi internazionali pirotecnici siamo ancora qua a fare macello. E comunque a Monaco la birra costa pochissimo.
Teo: Nonostante non ci abbia mai vissuto devo però dire che Monaco è una città che ho frequentato tanto grazie soprattutto alla musica. Tado si spostò in Germania per un dottorato di ricerca e tutti noi sapevamo di trovare sempre e comunque un amico sul quale contare da quelle parti, siamo andati spesso a trovarlo, ci sono passato con i Filth In My Garage, con i The Disgrazia Legend e con i Frana. Credo di aver suonato in tutta la mia vita più volte a Monaco di Baviera che a Bergamo città. Inoltre la cosa bizzarra è che siamo sempre stati in posti diversi a dormire e tutti questi posti erano casa di Tado.
SD: Il vostro ‘Disastersss’ propone una curiosa triangolazione musicale: Washington, Chicago e Inzago e magari molti non realizzano che persino quest’ultima ha un suo piccolo feudo musicale legato al Trai Studio. Domanda uno: come avete scelto dove e come fare i tre passaggi fondamentali del disco?
Luca: Questo bizzarro mostro di Frankestein Inzago-Washington-Chicago è un po’ capitato. Il piano originale era di registrare dal Trai, far mixare da Dave Curran (Unsane, Pigs) al Trai studio, e fare il mastering da Carl Saff a Chicago, al quale puntavamo già dal disco precedente. Il Trai aveva già lavorato con Dave e questa combo aveva già funzionato molto bene con l’ultimo disco dei Filth In My Garage, mentre Saff e Dave lavorano spesso assieme. Poi covid, lockdown, piani che si sgretolano e impossibilità di pianificare qualunque cosa. Siamo riusciti per miracolo a fare le riprese, ma Dave non riusciva ad esserci. La necessità di trovare qualcuno che potesse lavorare in remoto ci ha fatto scoprire TJ Lipple, che ha fatto un gran lavoro, è stato molto piacevole e facile lavorare con lui.
Fra: E’ capitato, ma penso sia capitato bene. Le riprese dal Trai sono oramai una tradizione per noi, tra i bianchini delle 11 di mattina e un parco amplificatori da sbavo. TJ invece l’abbiamo trovato fondamentalmente frugando su Discogs. Il suo nome continuava ad apparire collegato a un sacco di dischi che ci piacciono, tipo ‘Drescher’ degli Haram che è il disco più sottovalutato del millennio, o il primo disco dei Flasher. Allora vai a vedere per bene, e vedi che lavora all’Inner Ear Studio a DC, dove fra gli altri hanno registrato i Fugazi. Abbiamo sentito i suoi lavori sulle voci, la spazialità dei suoi mix, e siamo andati a colpo sicuro. Lui si è subito preso bene per il disco, ci ha fatto un prezzaccio e olé.
SD: Domanda due: troviamo un nome legato a ciascuno di questi tre luoghi cui vi lusingherebbe essere accostati? Però è proibito menzionare qualsiasi gruppo che abbia Steve Albini e Ian MacKaye come musicista o produttore.
Fra: Valgono i Rites Of Spring? No dai, scherzo. Per Washington DC dico Q And Not U, una band con un tiro e un gusto pazzeschi, capaci di combinare alla perfezione le cose complicate con quelle catchy. Che è quello che cerchiamo di fare a volte pure noi con risultati alterni. Per Chicago dico Meat Wave, un trio post-punk a cui ci sentiamo vicini nello spirito. Se venissero a suonare di qua del mare faremmo carte false per condividerci il palco. Mi sa che hanno registrato un disco da Albini, però dai facciamo che valgono lo stesso. Inzago, la provincia…, nei quasi 20 anni di Trai Studio ne son passati tanti di nomi a cui ci piacerebbe essere accostati, qua su due piedi non ti dico un gruppo ma un’etichetta, Wallace Records. Per il me stesso adolescente di inizio anni 2000 ha rappresentato un punto d’accesso a una gamma di band/persone/stili/visioni/posti che era veramente qualcosa di figo e nuovo, soprattutto in Italia, e che mi ha influenzato parecchio e non solo musicalmente. Su Inzago vorrei però che Teo aggiungesse la sua prospettiva più attuale dalla torre di controllo del Bloom, la mia di milanese di città emigrato conta zero.
Teo: Beh, io ad Inzago ci sono praticamente cresciuto, il Trai è un mio carissimo amico e anche collega, lavoriamo insieme ormai da anni su più festival estivi della zona e se lavoro nella musica, suono e sono appassionato di rock’n’roll è soprattutto grazie a lui. Tantissime band ho conosciuto facendo il fonico negli anni ma più di tutte lego al Trai Studio gli Spread, anche se in realtà non si collegano direttamente ai Frana. Succede che nel 2010, mentre stavamo smontando l’impianto audio da un palco sotto a una pioggia torrenziale, il Trai si lascia scivolare dalle mani un sub che mi è cascato dritto dritto sul piede destro, fratturandomelo. Mi sono dovuto sparare due mesi di gesso più riabilitazione, ricordo che il Trai ci rimase malissimo anche perché perdetti tutta la stagione estiva di lavoro, perciò una sera passò a prendermi sotto casa e mi portò ad un concerto nella Bergamasca, un concerto dei Verdena dove lui avrebbe dovuto lavorare come fonico per la band di apertura. Quella band erano proprio gli Spread. Per Washinghton DC cito gli Scream anche se non so se vale. Per Chicago invece non posso non giocarmi anche io la carta Meat Wave (che di certo hanno registrato un disco da Albini).
SD: Quando si parla di un suono come il vostro mi pare che venga raramente menzionato il lascito musicale di Amphetamine Reptile, qualcuno di voi ritiene che abbia prodotto qualcosa di buono?
Fra: Sì hai ragione, è un nome che in qualche modo fa un po’ da spartiacque. E’ elevato a leggenda da tutta quella classe di persone affezionata (secondo me pure troppo) al noise rock abrasivo dei ‘90s, americano ovviamente, vedi Unsane, Tar e Cherubs. Tutti quei gruppi con il nome scritto in stampatellone gigante. Come label ha fatto uscire dei dischi imprescindibili, tipo ‘Scattered, Smothered & Covered’. Ma penso che il lascito fondamentale non sono tanto i singoli dischi o le varie band, ma proprio la definizione di quel suono abrasivo e le sue produzioni essenziali, dove senti la corda di basso sferragliare come un treno merci. Il pacchetto può anche stancare, anche graficamente, ma avrà sempre un suo seguito e un suo ricambio di band, oggi ben rappresentate secondo me dai Whores.
SD: Di contro deve esistere una band o un intero genere musicale che non tollerate. Immaginatevi come un Pol Pot qualsiasi, chi togliamo di mezzo?
Luca: Più che il genere esso stesso toglierei di mezzo tutti i franchise, di qualunque genere, ovvero quei gruppi che decidendo di “prendere ispirazione” finiscono per fare la copia esatta di gruppi molto yeah, nella musica, nei testi, nelle grafiche e a volte pure nelle scarpe… io sono per il “piuttosto fallo male, ma che sia una roba personale”. Per quanto abbia senso parlare di originalità in un mondo dove tutto è già stato fatto, ovviamente.
SD: Negli ultimi anni, prima che il mondo finisse nel 2020, mi sembra di aver visto un buon numero di band italiane con caratteristiche proprie che cadono nell’ampio macrocosmo del post-hardcore, direi per lo più con persone tra i 30 e i 40 anni. Presupponendo – e magari sbaglio – che tutti siate passati da forme musicali più antemiche, a che punto avete capito che preferivate suonare pezzi più intricati e angolari?
Fra: In realtà non ho mai preso in considerazione l’idea di avere un gruppo dove la composizione non fosse anche un modo di mettersi alla prova. Poi c’è una questione di gusto ovviamente, e a me piace da sempre la roba intricata e inacidita. Basta che non lo sia per mettersi in mostra, ma che la cosa abbia un senso. Forse è così perché ho iniziato a suonare in un gruppo relativamente tardi, dopo il liceo, quando tutta una serie di ascolti avevano già lasciato il segno.
Luca: Premetto che ho dovuto googolare un paio di parole, anche Fra l’ha fatto ma non lo dice… in realtà quasi subito, sono passato dai gruppi del liceo grunge-punk al post-hardcore in molto poco tempo. Già nel 2004, che ne avevo 20, abbiamo formato i Daphne, una roba alla Dillinger Escape Plan, ultra-stortissima e con 400 riff al minuto, e nel 2007 ho iniziato a suonare coi Disgrazia Legend, più noise-core ma comunque belli storterelli e fastidiosi. Nel frattempo ci sono stati anche i Proto K Distillery, con un paio di elementi dei Daphne, perché New Found Glory e Blink 182 andavano molto forte e ci facevano battere il cuoricino. Almeno per me, le due anime del punk-rock melodico e del post-hardcore cacofonico hanno convissuto per un bel po’ di tempo (e continuano a farlo).
Michi: Penso che più che scelta sia una sorta di evoluzione personale, musicale inconscia che porti ad avvicinarsi a ad un genere piuttosto che ad un altro, o ad un modo di scrivere più semplice rispetto ad uno più intricato. I miei albori sono stati conditi da cover metal ai tempi del liceo ma strizzando sempre l’occhio al punk anni 2000, per poi iniziare un progetto di musica originale ad oggi ancora attivo con i Soundtrack Of A Summer dove si suona dell’alternative con influenze grunge/punk. Nel 2013 mi sono unito ai Disgrazia Legend con Luca e per un periodo anche Teo, e li mi sono avvicinato ad un genere decisamente più “storto” per poi franare nei Frana.
Teo: Ho sempre suonato in gruppi che facevano roba distorta, veloce, con tempi dispari e con la matematica che faceva da padrone nonostante per almeno un paio d’anni mi beccai il “debito” al liceo. Negli anni si sono susseguiti i Waist Of Noise, Filth In My Garage, Daphne, The Disgrazia Legend e compagnia bella… ma dal 2010 al 2013 c’è stata una piccola parentesi che mi ha visto imbracciare il basso nei Chatterbox, una band composta da gente che arrivava dal post hc e dall’hardcore melodico (cito gli A Perfect Day e gli Unless We Try). Suonavamo robe alla Minus The Bear con un po’ di elettronica, voci melodiche, tempi dilatati conditi da tante sigarette magiche, è stato molto divertente e questa esperienza mi ha fatto crescere sotto tutti i punti di vista, soprattutto sotto l’aspetto del comporre musica d’insieme. Ho addirittura imparato a scrivere canzoni da 5 minuti con solo 3 accordi di numero.
SD: Al di là delle mie impressioni sul fiorente underground italiano, resta comunque difficile portare 100 persone a un concerto e vendere 300 copie di un disco, obiettivi che qualcuno potrebbe anche definire “vecchi” nella musica contemporanea. I Frana ne hanno trovati di migliori da perseguire?
Fra: Quelli non sono obiettivi, sono abitudini dure a morire, perché ci continua a piacere: suonare, mangiare in area di servizio, dormire nel sacco a pelo nelle case delle persone (grazie a quelle persone!). Speriamo che il mondo esca presto dal buco nero in cui è piombato, perché c’è che da cominciare a ricucire tutto questo vuoto. Il disco è prima di tutto un mezzo per poter perseguire quello, pagandosi almeno l’autostrada. E poi fissa un momento, condensa degli stati d’animo. Penso che questa crescente tendenza nel mainstream contemporaneo a pubblicare pezzi sparpagliati ponga enormi limiti a livello di visione compositiva.
Luca: No no, il nostro obbiettivo non è vendere 300 copie, è liberarci di 300 copie, vai a casa della gente con una scusa, sfrutti un momento di distrazione e gli infili il disco dei Frana nella sua collezione, o nell’armadio, o nel controsoffitto, o nel camino, o nella sabbia del gatto… non sai di averlo comprato? Te lo ritrovi in salotto (cit).
Teo: Io suono per passione, per fare balle con gente nuova ogni volta, per bere, mangiare e dormire aggratis.
SD: I marchi prima e gli euro tedeschi poi hanno permesso a molte band (specie statunitensi) di mantenersi. Da ex residenti riuscite a definire quel paio di pregi o difetti che in Germania hanno nel trattare la vostra fascia musicale?
Luca: In Germania, come in Francia e tutto il nord Europa, c’è un welfare che qui ce lo si sogna, che permette a chi lavora/non lavora con la musica di avere abbastanza soldi e tempo per poterci quasi campare senza eccessivi sacrifici, facendo un “lavoro vero” abbastanza rarefatto. In più, le istituzioni sovvenzionano le attività culturali, che sono detassate alla grande. Altri grandi pregi: la gente che va ai concerti compra i dischi, c’è moooolto meno snobbismo e situazionismo… forse… no, l’ultima me la rimangio, sono solo declinati in maniera diversa… difetti: l’originalità dei progetti certo non è dalla loro, c’è un gap gigantesco fra i gruppi grossi e quelli DIY, come qualità della musica e del suono, e il pubblico che più beve e più balla/poga/si leva i vestiti, che è un po’ un’arma a doppio taglio perché se suoni tardi nella serata ti trovi a suonare di fronte ai rottami…
Fra: Sempre che il rottame non sia tu esso stesso… comunque di solito la gente sta impalata con l’occhietto spento, se non sanno bene chi sei. Il tedesco medio è abituato a sapere cosa ha davanti, a decidere scientemente e organizzare meticolosamente anche il suo svago. Perciò è una situazione rara quella di avere davanti un gruppo di cui sanno poco o nulla. Questo crea enormi salti di percezione nel suonare a concerti/eventi organizzati all’interno di scene ben precise e, ad esempio, festival generalisti dove la gente va davvero solo a vedere il nome grosso di turno e non caga di pezza nessun’altro gruppo. Però le persone si informano, si scelgono i concerti, ci vanno e pagano l’ingresso.
SD: Il vostro nome mi permette di constatare che – nel bene e nel male – “frana la curva frana sulla polizia italiana” così come “linee dritte quasi parallele nei tuoi sogni nei tuo sbadigli quotidiani” o ancora “acqua boario fegato centenario” e “l’odore della lana bagnata dalla pioggia” sono testi che potrò dimenticare solo con una lobotomia. Stando nei limiti delle produzioni indipendenti, quali sono le righe in italiano che vi accompagneranno fino alla morte?
Luca: Tre a testa? Dai! “io non ho paura del buio, meglio non vedere che cercare invano di evitare il soffitto, attendo da ore che mi crolli addosso”, “mi affogherei e anche se non mi viene io senza lei e anche se non c’è miele mi viene dolce e penso sempre lo stesso mi affogherei”, “le tre bellezze della vita siamo io mia sorella e mio papà… pippiamo la cocaina e la vita ci sorride sempre llero lallà, pippiamo la cocaina e la vita trallallero trallallà”.
Fra: “raid, aereo, sul paese delle farfalle”, “come lucertole s’arrampicano, e se poi perdon la coda la ricomprano”, “ho tirato pugni da ogni parte per, uscire da un sacchetto diiii carta”, “gli amici del campetto passati dalle Marlboro direttamente all’eroina, alla faccia delle droghe leggere”, “sabato in barca a vela lunedì al Leoncavallo, l’alternativo è il tuo papà”.
Michi: “Magari non rinizierò da zero, e forse conviene così. Quando avrò meno pensieri potrò riniziare da me. Che suono fa un oggetto prezioso che cade?”, “Ma tu ci pensi mai alla fretta, ai ritardi a chi è rimasto indietro e quanto è ancora è difficile dirgli, ‘Mi manchi’ che schifo avere rimpianti”, “se devo uscire vado a caccia di peroni safari bangla mi potrebbero aiutare ne ho catturate quasi come quell’estate e ho fatto finta di far festa con la Fanta”.
Teo: “È tutto uguale è tutto così. Quando va bene pensalo bene ma bene ma… comunque tutto quanto è così. Quando va male pensalo male ma male ma…”, “Pezzi bui dentro di me non se ne vogliono andare, resto da solo a guardarmi allo specchio senza parlare” e “Giornate grigie e il cielo è spento la gioia mi scalfisce e non ho difese, più soffia il freddo, più l’azzurro e il giallo a se mi attraggonoooooooo ooooh”. Grazie, Marco, per la chiacchierata. Speriamo di rivederci presto e di lasciarci in fretta alle spalle questo schifo.
(pei i più pigri, in quest’ultima domanda abbiamo menzionato – in ordine sparso – testi di Erode, Quercia, Pornoriviste, Afterhours, Punkreas, Fine Before You Came, Skruigners, Tunonna, Verdena, X-Mary, La Quiete, Sottopressione, Offlaga Disco Pax, Frammenti, Frankie Hi-Nrg, Coma Cose – NDA)
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