ALICE COOPER ‘DETROIT STORIES’
Review Overview
8
8ALICE COOPER
‘Detroit Stories’-CD
(earMusic)
8/10
Non sono impazzito, non mi si è incantato il tasto sull’otto, e nessuno mi ha offerto una cena con Nita Strauss. ‘Detroit Stories’ è un ottimo album, punto. Capisco che qualcuno potrebbe storcere il naso a guardare lunghezza e numero dei brani: “ma tu non sei quello che i settanta minuti di ‘Cyr’ degli Smashing Pumpkins era un’offesa per l’ascoltatore?”. Ma qui mi aiuta il massimo esperto italiano in ambito Alice Cooper, sto parlando di Dwight Fry de ‘Heavy Metal – La Storia Mai Raccontata’: sette dei quindici pezzi che compongono ‘Detroit Stories’ sono già sentiti. Prima di tutto ci sono quattro cover. E, sempre per citare Dwight Fry (meglio di così non potrei), nessuna è l’ennesimo tributo a ‘Paint It Black’ (anche se gli Earth Crisis che rifanno gli Stones asfaltano tutto e tutti, a mio modesto parere!). Il singolo riempipista è ‘Rock’n’Roll’ dei Velvet Underground: potenziata, anzi impreziosita a dovere, a furia di glitter, capelli cotonati, stivali colorati e giacche in pelle. ‘Detroit Stories’, infatti, è puro glam rock, con il valore aggiunto di essere suonato da “only locals” della motor city (Wayne Kramer, per citare il più famoso del lotto) e cantato da un over settanta che non perde un colpo da quando si è convertito (sua versione)… o meglio da quando ha fatto il patto col diavolo (mia versione).
Purtroppo la mia generazione (’72) identifica, un po’ troppo a spanne, il buon Vince con il periodo hair metal, quello di ‘Trash’ e di ‘Poison’. Una tara difficilissima da dimenticare per gente hardcore tipo il sottoscritto, viste le partigianerie e i dissing (non si chiamavano così, ma rende bene) del periodo (vedi Danzig vs Warrant). Per i più piccoli di me, è andata ancora peggio: magari mi sbaglio, ma atteggiamento e produzione del nostro a cavallo del millennio sono la cosa più lontana da Pitchfork e dall’alternative rock a cui io possa pensare. Bene, tra i sette pezzi già sentiti di cui sopra c’è pure ‘Don’t Give Up’, una ballad talmente perfetta che non mi viene in mente Patton che sbraita contro i Poison al Monsters Of Rock del ‘90… no! Mi vengono in mente Rourke e la Tomei di ‘The Wrestler’, lui gonfio di steroidi che ascoltando i Quite Riot (o qualcosa del genere) le dice, per conquistarla, che gli anni ’80 erano il meglio. INDIMENTICABILE. Concludo. Quando esce un album del genere c’è da essere contenti: Vince e compagnia hanno alzato la barra del divertimento nel fare musica e nell’ascoltare musica. La buona notizia è che le “nuove” leve – non so, i Giuda – dovranno rispondere per le rime: aspettiamoci grandi cose dai ragazzi… ed aspettiamoci un grande tour dai vecchietti!
(fmazza1972)
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